Le prospettive economiche dei giovani choosy

Creato il 22 novembre 2012 da Keynesblog @keynesblog

La bassa dotazione di capitale umano spiega in misura significativa anche la bassa produttività del lavoro in Italia. Bisognerebbe invertire la tendenza con politiche che riqualifichino la domanda di lavoro. Ma purtroppo la ‘storica’ dichiarazione di Tremonti – “con la cultura non si mangia” – sembra aver trovato proseliti anche nel governo Monti.

di Guglielmo Forges Davanzati da MicroMega on line

Nel nostro Paese i giovani sono relativamente pochi e poco scolarizzati, nel confronto con i principali Paesi industrializzati: 20 laureati su cento individui nella fascia d’età compresa fra i 25 e i 34 anni contro una media dei paesi OCSE pari a 37 (26 su cento in Germania, 41 su cento negli Stati Uniti, 43 su cento in Francia, 45 su cento nel Regno Unito, 56 su cento in Giappone). E sono anche, e sempre più, sottoutilizzati: mentre, negli ultimi anni, al contrarsi dell’occupazione, negli altri Paesi è cresciuta la quota di occupati ad alta qualificazione, in Italia è avvenuto il contrario. Come certificato nell’ultimo Rapporto OCSE, la bassa dotazione di capitale umano, fra gli altri fattori, spiega in misura significativa il fatto che la dinamica della produttività del lavoro è, in Italia, fra le più basse nell’ambito dei Paesi industrializzati.

Data questa diagnosi, non si capisce, almeno in prima approssimazione, per quale ragione Ministri di questo e del precedente Governo insistano nell’invitare i giovani a riscoprire il valore del lavoro manuale e, coerentemente, si impegnino a disincentivare lo studio mediante la riduzione dei finanziamenti alle Università e il conseguente inevitabile aumento delle tasse. Si tratta di un processo che può farsi risalire – nei tempi più recenti – alla ormai ‘storica’ dichiarazione di Giulio Tremonti, secondo il quale “con la cultura non si mangia” e che termina, al momento, con la recente esternazione del Ministro Fornero, per la quale i giovani italiani dovrebbero essere meno “schizzinosi”. E’ un esercizio pedagogico di dubbia utilità, essendo ampiamente noto che, anche nel caso siano in possesso di laurea, gran parte dei giovani italiani – soprattutto nel Mezzogiorno – già è in condizione di sottoccupazione intellettuale e, dunque, è già impegnato nello svolgimento di mansioni per le quali non è richiesto un elevato titolo di studio, oppure – il che vale soprattutto per coloro che provengono da famiglie con redditi elevati – è già all’estero. In ogni caso, l’inversione di rotta è almeno in parte già riuscita, come testimonia il significativo calo delle immatricolazioni in atto da almeno un biennio.

La logica che ispira le dichiarazioni di molti nostri Ministri, e i provvedimenti che ne seguono, è riconducibile alle seguenti considerazioni.

1. La struttura produttiva italiana, salvo rare eccezioni, è composta da imprese di piccole dimensioni, scarsamente internazionalizzate e poco innovative. A ciò si aggiunge il fatto che, anche in questo caso con le dovute eccezioni, la nostra classe imprenditoriale è per lo più composta da imprenditori con basso titolo di studio. Poiché, come l’evidenza empirica mostra, la domanda di lavoro qualificato è tanto maggiore quanto maggiore è il contenuto tecnologico delle produzioni e quanto maggiore è il livello di istruzione degli imprenditori, segue che un’elevata e diffusa scolarizzazione si traduce quasi esclusivamente in eccesso di offerta di lavoro qualificato. In assenza di politiche industriali finalizzate a ri-orientare la domanda di lavoro, rendendola più qualificata, è del tutto evidente che alle imprese italiane i laureati non servono, così come non serve la ricerca scientifica.

2. Va rilevato che – stando ai dati forniti dal MIUR – la spesa pubblica per la formazione e la ricerca è aumentata nelle fasi espansive del ciclo e si è ridotta nelle fasi recessive. In particolare, nei primi anni Duemila, la spesa pubblica destinata alla formazione e alla ricerca è sensibilmente cresciuta, e soprattutto è cresciuta la quota della spesa pubblica destinata alle Università, a fronte del fatto che, nel periodo considerato, il tasso medio di crescita è stato circa pari al 2%, con successiva riduzione nell’ordine del 15% della spesa pubblica per la formazione e la ricerca in una fase nella quale il tasso di crescita è stato nullo o negativo. Questa inversione di tendenza viene diffusamente motivata (e legittimata) con due argomenti. In primo luogo, si pone in evidenza il fatto che i periodi di crescita dei finanziamenti alle Università sono stati i periodi nei quali è stato maggiore lo “spreco” di fondi pubblici. In secondo luogo, si ritiene che anche le Università debbano contribuire al raggiungimento dell’obiettivo del risanamento dei conti pubblici, secondo la logica dominante che vede nelle politiche di austerità la sola possibile opzione di politica economica.

Occorre chiarire che entrambi gli argomenti sono del tutto fuorvianti. Innanzitutto, non è chiaro – in linea generale, e ancor più con riferimento alla formazione e alla ricerca scientifica – cosa si intenda per “spreco”, se non un “eccesso” (di assunzioni, di immatricolazioni, di corsi di laurea) che, tuttavia, per sua stessa definizione, deve rinviare a un parametro di riferimento in qualche modo considerato ‘ottimale’, che non è dato conoscere. In più, la tesi che le Università debbano scontare una (consistente) riduzione di fondi per contribuire alla riduzione della spesa pubblica, a sua volta funzionale a ridurre il rapporto debito pubblico/PIL è non solo falsa, ma di fatto implicitamente dà conto del modo in cui si è intesa gestire negli ultimi anni la politica universitaria. Si tratta di una tesi falsa, dal momento che, come ormai ampiamente mostrato sul piano teorico ed empirico, le politiche di austerità sono inefficaci per l’obiettivo stesso che si propongono, dando luogo a un esito per il quale quanto meno lo Stato spende tanto più cresce il rapporto debito pubblico/PIL.

E si tratta di una tesi che mette in evidenza il fatto che l’istruzione, in Italia, da almeno un decennio, non è ritenuta una variabile rilevante ai fini della crescita. Lo dimostra il fatto che si è disinvestito, e si disinveste, nella formazione e nella ricerca proprio nelle fasi nelle quali occorrerebbe ragionevolmente agire sulle principali variabili che generano aumenti del PIL: fra questi, in primo luogo, i flussi di innovazione derivanti dalla ricerca scientifica e la crescita della dotazione di capitale umano. Nella fase attuale, si può sostenere che la politica formativa non fa altro che limitarsi ad assecondare le dinamiche strutturali dell’economia italiana. Si consideri, a riguardo, che – per quanto attiene alla competitività del settore manifatturiero – si stima che l’economia italiana, ventunesima economia industrializzata su scala globale nel 2009, è ora posizionata alla trentaduesima posizione. Vi è di più. Su fonte Mediobanca, si registra che, nell’ultimo ventennio, le imprese italiane sono state coinvolte in un rapido e intenso processo di “finanziarizzazione”: il rapporto fra investimenti finanziari e investimenti tecnici, pari a circa il 30% nel 1992, risulta, nel 2011, pari a circa il 70%, con conseguente riduzione della domanda di lavoro qualificato nel settore industriale.

Concepita in una logica di breve periodo e secondo i parametri della più rapida “occupabilità” dei laureati, non desta sorpresa il fatto che la politica formativa risenta in modo rilevante dei cambiamenti strutturali e, in particolare, del processo di deindustrializzazione in atto nel nostro Paese.

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Filed under: Economia, Italia, Lavoro Tagged: Elsa Fornero, guglielmo forges davanzati

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