Oggetto filmico non meglio identificato, Le Quattro Volte racconta quattro vite molto diverse tra loro ma tutte in qualche modo strettamente legate: la prima è quella di un vecchio contadino che porta al pascolo tutti i giorni le sue capre. Siamo tra le alte colline della Calabria, dove il tempo sembra essersi fermato. La vita del contadino è monotona, povera, e scandita da movimenti sempre uguali. Parecchio malandato in salute, il contadino beve ogni sera una strana pozione a basa di acqua e di polvere raccolta dal pavimento della chiesa del villaggio, che tuttavia non sarà in grado di guarirlo. Dopo la sua morte, il film inizia a seguire le avventure di una capretta appena nata che fa parte del gregge del pastore. La capretta è bianca, buffa e tenerissima, e il film la segue dall’istante della nascita (in una scena molto potente nella quale esce letteralmente dal corpo della madra davanti allo spettatore), ai suoi primi passi, ai tentativi maldestri di socializzazione, fino al momento in cui si perde dietro al gregge sulle colline. Sola e disperata, la capretta si mette a dormire sotto un grande albero, un gigantesco abete che diventerà il protagonista della terza storia. Maestoso e perfetto, viene scelto dagli abitanti di un villaggio per La festa dell’Albero, quindi viene tagliato, scorticato e issato nella piazza del paese, dove tutto intorno la gente balla, mangia e beve. Una volta terminati i festeggiamenti, l’albero è fatto a pezzi e portato via da alcuni uomini. E’ l’inizio della quarta ed ultima storia: con una tecnica antichissima, i legni vengono accatastati, fatti bruciare lentamente e poi trasformati in nero carbone.
Sorprendente e spiazzante, Le Quattro Volte è la dimostrazione che il cinema ha ancora infinite cose da dire in altrettanto infiniti modi. Film privo di dialoghi (le voci sono solo un brusio di sottofondo, le parole sono indistinte, alla maniera dei film di Jacques Tati) e pàrco di essere umani (il pastore, i carbonai, gli abitanti del villaggio), Le Quattro Volte esalta l’aspetto primitivo e fondamentale della natura del cinema, quello della pura forza delle immagini. Si può restare affascinati o meno, da questo mondo, ma non si può fare a meno di entrarci, non si può davvero restarne fuori. E’ un po’ come un ritorno alle origini. I cicli della vita: quella umana, animale, vegetale e minerale, riuniti in un unico luogo, sotto lo stesso cielo, che è quello della Calabria ma potrebbe essere quello di un qualsiasi altro villaggio nel mondo, il silenzio del passaggio sulla terra di questi elementi (persino di quello umano, privato della parola, e quindi allo stesso livello degli altri), la spiritualità (una forza animista, naturale, rurale, quasi anti-religiosa) che inevitabilmente irrompe sullo schermo e fa piazza pulita di tutto il resto. Quello di Frammartino è un cinema che parla alla parte migliore degli esseri umani, quella a cui sembra rivolgersi ancora con tanta fiducia (come lo invidio!) un grande regista italiano come Ermanno Olmi. Ma in queste quattro volte io ci ho visto, soprattutto, qualcosa che mi ha ricordato da vicinissimo il cinema di Andrei Tarkovskij. Lo stesso credere alla natura come luogo della realtà e del metafisico, gli stessi ritmi lenti, ossessivi, la stessa ricerca di spiritualità, pagana o religiosa che sia. Qualcosa che ci ricorda un'evidenza troppo spesso dimenticata: l'essere umano non è il solo a vivere su questa terra, ed è probabilmente quello che che ne capisce di meno.Alla fine della proiezione, Frammartino (quarantenne milanese di origini calabresi, alla sua seconda prova di regista dopo il film Il Dono del 2003), ha gentilmente risposto alle domande del pubblico presente in sala. Io ne avevo una ma non ho avuto il coraggio di farla. Eppure mi dispiace, perché mi ci arrovello ancora adesso. Avrei tanto voluto chiedergli: ma la capretta, che fine ha fatto la capretta??!
Grazie a Marianna, Jordi, Manù e Nandina che, nonostante una gelida, ventosa e piovosa serata parigina, non hanno fatto una piega nemmeno di fronte ad un film muto con caprette. Grandi!