Le rappresentazioni di Narciso

Creato il 06 giugno 2010 da Retroguardia

Il primo sguardo da gettare sul mondo è quello della poesia che coglie i particolari per definire il tutto o individua il tutto per comprenderne i particolari; il secondo sguardo è quello della scrittura in prosa (romanzi, saggi, racconti o diari non importa poi troppo purché avvolgano di parole la vita e la spieghino con dolcezza e dolore); il terzo sguardo, allora, sarà quello delle arti – la pittura e la scultura nella loro accezione tradizionale (ma non solo) così come (e soprattutto) il teatro e il cinema come forme espressive di una rappresentazione della realtà che conceda spazio alle sensazioni oltre che alle emozioni. Quindi: libri sull’arte e sulle arti in relazione alla tradizione critica e all’apprendistato che comportano, esperienze e analisi di oggetti artistici che comportano un modo “terzo” di vedere il mondo … (G.P.)

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di Giuseppe Panella

 

Le rappresentazioni di Narciso. Marco Fulvi, Il tempo di Narciso, una mostra di pittura presso il Museo di San Francesco a Greve in Chianti, dal 22 maggio al 6 giugno 2010

 

Narciso è “il vero scopritore della pittura” – scrive Leon Battista Alberti nel suo De Pictura che è del 1436. Per il grande umanista vissuto nell’epoca della Firenze dei Medici, il giovane bellissimo e dal corpo scultoreo ambito dalle ninfe non scopre tanto (o soltanto) la perfetta imitazione della sua immagine fino ad innamorarsi perdutamente di essa quanto perché riconosce se stesso in quanto immagine ed è questo a distruggerlo come essere vivente. Attraverso la conoscenza di sé come rappresentazione e quindi ombra, Narciso cessa di essere creatura vivente e sprofonda nel regno delle ombre, dei sogni, delle immagini riflesse in uno specchio che, tuttavia, gli rimanda indietro una forma inesatta di ciò che è in realtà.

Per conoscere la verità sulle figure riflesse negli specchi, bisogna sempre andare al di là di essi (come farà Alice sprofondando in una dimensione altra del mondo oltre lo specchio e ritornando indietro con la consapevolezza di aver vissuto di e in un sogno). In pittura, invece, lo specchio è costituito dallo sguardo di chi si confronta con le immagini rappresentate nel quadro che gli sta di fronte. Se quest’ultimo è costituito dal volto di chi ha dipinto il quadro stesso, allora il rispecchiamento (e lo piazzamento visivo) è duplice: lo specchio costituito dallo sguardo dello spettatore rimanda allo specchio nel quale il pittore si è visto a sua volta dipingendosi, rimirandosi come oggetto da spalmare sulla tela e trasformandosi in riflesso di se stesso. Per questo motivo, ogni autoritratto è una vertigine continua e continuata – simile in questo alla passione che coglie Narciso alla vista di se stesso nello specchio d’acqua ritrovo delle ninfe innamorate di lui (tra di esse, Eco, condannata da Era, furiosa per la parte che la ninfa ha avuto in uno dei frequentissimi tradimenti di Zeus, a ri-ascoltare per sempre l’ultima parte delle parole che ha pronunciato e, quindi, per questo motivo, probabile scopritrice della musica).

D’altronde, nello specchio che riflette, esiste un elemento di incompiutezza che impedisce all’immagine che deflagra di cogliere compiutamente se stessa. E’ quello che Kant ha definito il problema degli opposti incongruenti.

Attraverso una verifica davanti allo specchio della dimensione spaziale del nostro corpo, ad esempio, potremo tranquillamente verificare la fallacia di una visione della realtà come dipendente dallo spazio in cui esse si trovano (per il filosofo di Königsberg – come è noto – spazio e tempo sono intuizioni trascendentali a priori che permetteranno la costruzione dei giudizi sintetici della conoscenza scientificamente corretta).

Per ottenerne una prova provata oggettivamente basterà mettere la mano sinistra di fronte ad uno specchio. In questo modo, allora, dalla mano sinistra si dedurrà la posizione della destra e sulla differenza tra le due la prova cercata da Kant sarà facilmente verificabile.

Le due mani risulteranno identiche in quanto l’una è la riproduzione speculare dell’altra e i rapporti delle parti che le costituiscono sono identici, eppure non possono essere considerate intercambiabili perché il loro orientamento nello spazio è diverso. Da qui si può rilevare che se lo spazio fosse la conseguenza diretta della situazione delle parti che compongono l’oggetto non si avrebbe ragione di chiamare una mano sinistra piuttosto che destra. Infatti, le due mani sarebbero del tutto identiche e di conseguenza del tutto intercambiabili; in tal modo, non si potrebbero avere opposti incongruenti, ma solo congruenze nello spazio come tale.

Per questo motivo, dunque, come dirà Cocteau nel suo ultimo film, il Testament d’Orphée del 1959 (continuazione ideale di un altro suo film del 1949 ma direttamente ispirato a un testo teatrale), “gli specchi dovrebbero riflettere prima di rimandarci l’immagine”…

Marco Fulvi non si sottrae a questa interrogazione e a questa tentazione antica ma sempre nuova: moltiplicando la propria immagine, moltiplica anche questa vertigine. I suoi autoritratti esposti nella mostra Il tempo di Narciso presso il Museo di San Francesco di Greve in Chianti ne sono testimonianza autorevole.

Fulvi non insegue, tuttavia, il mito di Narciso ma cerca di collocarsi su un versante diverso rispetto ad esso e rispetto all’”eterno presente” della postmodernità nella quale siamo costretti ancora a vivere. Più che al narcisismo secondario del rapporto esclusivo con se stessi, Fulvi cerca di centrare l’obiettivo di una qualificazione estetica del comune “narcisismo primario” dell’Io.

«Il narcisismo appare ora spostato su questo nuovo io ideale, che si trova in possesso, come l’io di quando si era bambini, di tutte le più preziose qualità. L’uomo si è dimostrato ancora una volta, come sempre nell’ambito della libido, incapace di rinunciare a un soddisfacimento di cui ha goduto in passato. Non vuol essere privato della perfezione narcisistica della sua infanzia e se – importunato dagli ammonimenti altrui e dal destarsi del suo stesso giudizio critico – non è riuscito a serbare questa perfezione negli anni dello sviluppo, si sforza di riconquistarla nella nuova forma di un ideale dell’io. Ciò che egli proietta avanti a sé come proprio ideale è il sostituto del narcisismo perduto dell’infanzia, di quell’epoca cioè in cui egli stesso era il proprio ideale».

(Sigmund Freud, Introduzione al narcisismo, trad. it. di R. Colorni, Torino, Boringhieri, 1976, p. 48).

Questa forma di narcisismo, che Freud chiamerà secondario, è all’origine delle forme di ipervalutazione dell’immagine e della propria persona (soprattutto fisica) che contraddistinguono l’epoca attuale dal punto di vista delle forme più diffuse di comunicazione di massa e di trionfo della spettacolarizzazione indotta come unica espressione di vita individuale. Ne è testimonianza un ormai classico studio di sociologia applicata (Christopher Lasch, La cultura del narcisismo. L’individuo in fuga dal sociale in un’età di disillusioni collettive, trad. it. di M. Bocconcelli, Milano, Bompiani, 1981 e sgg.). In esso, Lasch sostiene che l’approdo a forme esasperate di narcisismo individuale non è più l’eccezione di carattere patologico prospettata da Freud (e prima di lui da Richard Krafft-Ebing) ma la norma in una società in cui le scelte collettive sono delegate a poteri non individuabili e lontani dalla dimensione sociale quotidiana e l’unica possibilità per i soggetti rimane quella dell’auto-coltivazione del Sé. L’ossessione circa il proprio stato psichico si accompagna a quella per la propria forma fisica. L’abbandono del sogno collettivo della palingenesi sociale si rovescia nell’illusione dell’eterna giovinezza. Nella presente discontinuità sociale, con la fine di una società che individuava nella coerenza e nella continuità dei comportamenti e degli obiettivi la propria significatività, la tendenza all’autoconservazione come elemento di solidificazione dell’Io e sua perpetua autopromozione sostituisce quella del miglioramento del Sè, la cultura del narcisismo diviene una modalità per massimizzare vantaggi e piaceri sempre individuati e considerati a breve termine. Con il crollo e l’abbandono progressivo del mito del self-made man, letto come una disciplina severa, ascetica e laboriosa, un modello di accettazione dell’operosità umana con la sua necessaria moderazione prolungata e soprattutto come forma di autodisciplina subentra, nella collettività mucillaginosa del presente, uno stimolo sempre incalzante alla massimizzazione degli interessi personali immediati, al di fuori delle logiche sociali e delle ideologie una volta proliferanti sotto forma di “narrazioni” collettive del mondo.

Nei suoi quadri meno grandi ma soprattutto nelle sue ampie tele in cui i volti si ripetono e si inseguono come espressione dell’Io che li ha dipinti, Marco Fulvi si concede una riflessione importante sulla natura di specchio della pittura. Nelle sue opere, il soggetto declinato più e più volte all’interno della tela cerca di esorcizzare il rischio sempre presente del narcisismo di massa. Il singolo, a volte singolarmente atteggiato (nella toga romana o con un gatto in testa), ripete il percorso della sua formazione e il narcisismo primario del bambino che gli permetterà di giungere alla propria identificazione soggettiva acquista il senso di un tragitto attraverso le proprie possibilità. In questo modo Hyàkinthos (come veniva chiamato nelle isole greche dell’Egeo, Creta, Rodi, Còs e Thera), il figlio di Diomede e della spartana Amicla, non si metamorfosizzerà soltanto in Narciso, condannato a morire per essersi innamorato della propria bellezza.

«Ce thème de Narcisse que j’ai choisi, est une sorte d’autobiographie poétique» – dirà a più riprese Paul Valéry. Nella pittura di Fulvi, l’io autobiografico rappresentato si fa modello di scelta pittorica che vuole andare al di là del narcisismo diffuso per manifestarsi e incardinarsi in un segno che, proprio nella forza della rappresentazione, riesca a evitare la tentazione dell’Io a mostrarsi sempre come la propria ipervalutazione incontenibile. Lasciarsi ricondurre nei limiti tracciati dalla tradizione dell’autoritratto classico significa accettare il confronto con il passato e il presente della pittura – l’esatto contrario, quindi, del narcisismo sfrenato della postmodernità dispiegata.


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