Le recensioni di Art-Litteram

Creato il 04 agosto 2013 da Cataruz

Pur essendo opera di immaginazione, in questo romanzo c’è poco di inventato. Viene ricostruito un universo che coinvolge il lettore che abbia vissuto con sufficiente cognizione di causa gli anni ’90.

La Squadra antimafia – i Lupi di Palermo contestualizza in modo appropriato una manifestazione particolare del conflitto tra Bene e Male, dove il primo acquista le fattezze di qualcosa di cagionevole e corruttibile, privo di strumenti efficaci per contrastare le minacce, e il secondo assume l’aspetto di un virus pronto a consumare un infermo d’eccezione.

Quando la situazione è seria e nessuna profilassi è stata attuata per tempo, servono rimedi estremi, una cura da cavallo e una forte determinazione nel somministrarla.

Qui entra in gioco il commissario Matteo Alfonsi, ancora alle prime armi, ma con un curriculum di tutto rispetto. Criminologo e Profiler dopo un corso a Quantico negli Usa, ora è in forze nientemeno che presso la squadra Antimafia di Palermo, impegnato in una guerra senza esclusione di colpi: ciascun avversario dovrà essere in grado di prevedere e anticipare la mossa dell’altro, avendo cura di non lasciare le spalle scoperte, di non perdere o sacrificare pezzi.

Il gruppo, oltre che da Matteo, è formato dal dirigente Pietro Zanardi, dai commissari Domenico Alessi e Giorgio Pessarotto, dagli ispettori Anna Violante, Luca Barbieri e Gianna Licata:

Siamo Lupi e, come tali, viviamo come un branco: un unico, affiatato branco. Sette uomini e donne scelti attentamente dal Capo assoluto. 

Il lavoro dei lupi non è soltanto quello di stanare, arrestare, confinare il pericolo. Il loro è un compito molto più ambizioso, quello di dotarsi di una organizzazione in grado di competere contro quella avversaria, con la consapevolezza che il crimine è paradossalmente più strutturato di chi che per mestiere è chiamato a contrastarlo.

Per il momento è un sogno, ma si sta già seminando il terreno per la futura D.I.A (Direzione Investigativa Antimafia) e P.N.A. (Procura Nazionale Antimafia), che consentiranno sinergie fino a ora impensabili.

L’inizio appare promettente, perché grazie a Matteo Alfonsi prende corpo un metodo investigativo nuovo, fondato sul classico ragionamento analitico (all’indietro), lo stesso che contrapponeva Sherlock Holmes agli agenti di Scotland Yard per intenderci, di cui quello che segue è un chiaro esempio testuale:

Dalle tracce sul terreno, dai bossoli ritrovati e seguendo la traiettoria di fuoco utilizzata, deduco che l’assassino ha atteso la vittima ai piedi di questa scalinata. Mimo l’azione, la sto vivendo come in un film e non sento null’altro se non le mie parole, attorno a me brusii e rumori spariscono all’istante. Chiudo gli occhi e indico la strada alla mia sinistra, quella da dove è sicuramente spuntato il ragazzo con il motorino. Penso a voce alta, a occhi chiusi immagino il ragazzo che entra nella piazza e supera la scalinata dove mi trovo in quel momento. Imito gli atti che può aver compiuto l’assassino e illustro quanto sto vivendo nel mio film immaginario. 

L’intento della squadra Antimafia è quello di scardinare un nemico sempre più insidioso. Ciò dà il senso di una missione totalizzante alla quale dedicare anima e corpo, rinunciando alla pienezza di qualunque vita affettiva e familiare. Si combatte una guerra le cui battaglie si confondono tra le pagine di cronaca, concentrate sulla punta di un iceberg che non lascia intravedere il resto. Nemmeno i lupi conoscono alla perfezione il nemico sempre più subdolo, inavvertibile e vasto di quello che si creda. E meno ancora sono in grado di metabolizzare l’idea che un malato (lo Stato) possa scendere a patti con l’affezione che lo divora (la Mafia), neanche fossero due teste dimoranti nello stesso corpo, presenze consimili e opposte nello stesso tempo.

È questo il grave scandalo di una criminalità che si fa politica e di una politica che riposa nella criminalità. La stessa ragion d’essere della Squadra Antimafia si rende problematica.

 La Mafia, detto a denti stretti, questo agente patogeno che non può essere debellato, deve rientrare nei ranghi senza pregiudicare il sistema (di fatto un ibrido). Ciò che fa da sfondo al racconto è un’ipotesi di convivenza sull’onda di un inquietante laissez faire, laissez passer, di una tregua sempre sul filo del rasoio:

«Smantellare completamente la Mafia, oggi, significherebbe il fallimento dello Stato. Si aprirebbe una crisi economica enorme, addirittura mondiale. Imprese importanti che chiudono, la Borsa a picco, la Lira si svaluterebbe, la disoccupazione dilagherebbe creando maggiore povertà, i consumi si ridurrebbero drasticamente. La recessione potrebbe essere irreversibile. Senza contare che il crimine comune emergerebbe ovunque. Oggi la Mafia è un deterrente per la criminalità comune, nessuno si occupa di un’attività criminale senza che ci sia il diretto controllo di Cosa Nostra e, questo, le piaccia o no, garantisce uno standard che possiamo definire accettabile.»

Di fronte a una tale logica o ci si rassegna o si tirano fuori le unghie, cercando di capire a quale bocca appartengano queste parole, se allo Stato che ha abbassato il capo, o alla mafia che, parlando attraverso le stesse istituzioni, tenta di mettere da parte e di intrappolare le energie e la dedizione degli uomini e delle donne di buona volontà di cui, in ogni campo, c’è assoluto bisogno.

Davide Dotto


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