A cura di Davide Dotto per conto di Art-Litteram
In una precedente indagine Marco Alfieri ha rotto le uova nel paniere di qualcuno che conta. Questo l’impulso che ha spinto i superiori a promuoverlo, con la nuova mansione si è voluto renderlo inoffensivo.
Qualcosa però è andato storto: di certo non basta l’irragionevolezza del superiore a frenare la voglia di approfondire di Marco. Sta per iniziare, infatti, una concatenazione di eventi che trascineranno il nuovo assistente capo oltre ogni previsione.
È il caso a condurre Alfieri nell’abitazione di uno stimato psichiatra (il greco Karamensinis) e in quella della sua paziente (Letizia Santi).
È come se Sherlock Holmes si imbattesse in chi da lì a poco sarebbe entrato nell’inchiesta, cosa che gli permette di registrare e archiviare le impressioni ricevute.
Si tratta di un felice stratagemma narrativo, perché i personaggi vengono introdotti e caratterizzati prima di calarsi negli eventi, quando la narrazione acquisterà velocità. A partire da quel momento il tutto si focalizzerà sul próblema, sull’oggetto dell’indagine, non ci sarà spazio per ulteriori indugi.
Personaggi di spicco sono Silvia – la compagna di Alfieri, anch’essa nella polizia – Francesco Waldman, un giornalista d’assalto avvezzo a entrare nella notizia in modo pregnante e sfacciato. Silvia e Francesco sono le preziose spalle di Alfieri il quale, per il ruolo ricoperto, non ha gli strumenti di un commissario, né – o almeno non ancora – la pazienza di un Maigret nell’appostarsi, attendere che qualcosa si muova (assimilabile all’intuitivo e geniale fancazzismo di Waldman).
Alfieri essendo alle volanti non ha, infatti, alcun titolo per indagare sull’assassinio efferato di Letizia Santi, avvenuto al cimitero, davanti alla tomba della madre. È proprio Waldman, jolly della situazione, ad avere il campo sgombro. Ritrova l’arma del delitto, fa le veci di chi avrebbe dovuto sondare il terreno e ricostruire la scena del crimine.
Non vi è nulla, sulle prime, che si ponga fuori dall’ordinario, tanto che la copia del Vampiro di Munch scorto in casa di Letizia Santi, pur attirando l’attenzione, non esprime nell’immediatezza il suo significato.
Vera particolarità del romanzo è un’indagine parallela, in apparenza slegata da quella principale. Essa ha inizio nel momento in cui Alfieri entra in possesso del libro di Federico Giorio, Ricordi di Questura (1882[1]). Si tratta del resoconto, o meglio, della denuncia di comportamenti tutt’altro che cristallini della polizia in epoca post-unitaria. Il ritratto che ne emerge suggerisce un conto aperto con la storia, fino a farsi fotografia del tempo presente.
Il volume che il caso ha posto nelle mani di Marco Alfieri è un coacervo di suggerimenti che illuminano gli indizi via via raccolti.
Se il libro di Giorio chiarisce il macrocosmo, rileva le insidie ataviche rintanate nelle pieghe del potere, il Vampiro di Munch si addentra nel microcosmo, mostra ciò che si nasconde nelle pulsioni e nelle azioni individuali. Non si tratta di scoperte squisitamente erudite.
Ne I Ricordi di Questura la società post-unitaria appare decadente sin dall’inizio:
Mentre in Francia nel 1883 Verlaine dava il via al decadentismo […] in Italia un anno prima Federico Giorio pubblicava il suo Ricordi di Questura, un saggio che è decadente fin dalla prima pagina.
Il richiamo al dipinto di Munch è fortissimo. Esso è corollario di un’intuizione che parte da lontano e contribuisce a sbrogliare la matassa. Anche il Vampiro raffigura la resa incondizionata al potere, anche se d’altro genere: un potere che assume i contorni del desiderio distruttivo e autodistruttivo incarnato dalla fatale eroina decadente della seconda metà dell’Ottocento.
Se la società è decadente, lo sono i comportamenti, le istituzioni, gli eventi, la dinamica tutta da scoprire del delitto raccontato tra queste pagine. Prenderne coscienza significa non solo concludere l’inchiesta; significa rendersi conto della necessità di aggrapparsi a qualcosa e smettere di cadere; di alzare il capo, avanzare e non indietreggiare; di resistere all’insieme di forze contrarie che, come un contrappeso senza soluzione, porta avanti un gioco a somma zero. Il paradosso di Peter citato all’inizio ne è un chiarissimo esempio: tutto cambia affinché nulla cambi.
Ci si domanda allora cosa sarebbe stato dell’indagine se Alfieri non avesse avuto tra le mani il libro di Giorio e se nella casa della Santi non avesse scorto il celebre dipinto di Munch. Da quale altra fonte sarebbe mai giunto il suggerimento decisivo?
Si pensi solo alla “Donna della domenica” di Fruttero & Lucentini: la trama inestricabile del delitto è sciolta grazie alla suggestione di un proverbio torinese, il quale conduce a una concatenazione di deduzioni fruttuose: La cativa lavandera a treuva mai la buna pera.
Ciò apre uno spiraglio contro la rassegnazione del quadro decadente fin qui ricostruito e, di fatto, universale. Si scopre un antidoto efficace contro un nemico invisibile e subdolo: chiunque abbia voluto arginare Marco Alfieri non ha tenuto conto che vi è sempre, da qualche parte, un di più che sfugge, una maglia rotta nella rete che tutto avvolge e delimita. La denuncia di un uomo che ancora respirava l’aria di un risorgimento mai concluso è giunta in buone mani e non è rimasta sterile.
Davide Dotto