"Risorse umane" é una definizione cara a manager, a spigliati capi del personale, ai cosiddetti “tagliatori di teste” dediti allo sfoltimento degli organici. Un termine da affiancare a “capitale umano”, come elemento essenziale di un'impresa efficiente. Magari per far capire che il “capitale” da solo non ce la fa, a meno che non investa solo in imbrogli finanziari. Una scrittrice dall’amaro e fortissimo senso dell’humor ha rovesciato la frittata, e ha chiamato il tutto “risorse disumane”. E ha raccontato una vicenda simile a tante ristrutturazioni, in questo caso nel campo dell’editoria, dove le preziose “risorse umane” vengono mandate al macello, senza ritegno alcuno e spesso a scapito dell'efficienza aziendale. E’ capitato anche all’autrice, Marina Morpurgo, già apprezzata giornalista a "L'Unità" e poi caporedattrice al “Diario”.
Questo volume (”Risorse disumane” Editore Astoria) è il suo ultimo prodotto. Non è però, come qualcuno potrebbe credere, un piagnisteo sulla sorte di tre donne licenziate. Con una scrittura densa e provocatoria, Marina sbeffeggia, fa ridere e sorridere, coltiva con sarcasmo una rabbia che parla di tanti fatti dei giorni nostri. Le sue protagoniste sono in fondo parenti di tante donne e tanti uomini che abitavano le migliaia di aziende chiuse per crisi nel 2012 e che sembrano dimenticate da alcuni illustri protagonisti della battaglia elettorale. Storie e temi emersi nel dibattito appena cominciato sul "Piano del lavoro" proposto dalla Cgil.
Non è certo un trattato economico quello esposto dalla Morpurgo anche se nella angoscia sociale delle tre licenziate protagoniste del volume è additato un assassino, il Mercato, con la M maiuscola. Perché quelli che agiscono, come certi governanti, lo fanno “in nome del mercato”. Il Boss (altro protagonista del racconto) si difende così: “Il Mercato è infinitamente buono e saggio perché vede delle cose che noi non vediamo, perché sa delle cose che noi non sappiamo”. E vien da pensare che questo misterioso Mercato si potrebbe perlomeno ammansire, domare, piegare a regole diverse. Anche perché gli effetti sulle licenziate sono disastrosi: “Non c’è nulla che renda più malmostosi e nevrotici del trovarsi di colpo privi di responsabilità, stipendio e ruolo”. Fatto sta che le nostre tre donne sognano una specie di tenebrosa rivincita: rieducare il Boss, trasformandosi in tante Marie Montessori. Inscenano così uno sconquassato rapimento, copiato da una sequenza francese, costringendo il Boss all’ascolto di cori delle mondine. Loro del resto non hanno a disposizione forme di lotta di cui sono colmi giornali e Tv: “Bisognava impadronirsi di una gru e salirci sopra per protesta. Bisognava rifiutarsi di scendere e urlare con un megafono e mandare in giro dei comunicati stampa con le foto dei nostri figli”.
Non raccontiamo l’intera avvincente trama per non tradire la curiosità di lettori attirati dal sospetto che si tratti di fatti veramente accaduti. La narrazione corre via lesta e a me sembra che Marina abbia imparato molto nel suo prezioso lavoro di traduttrice anche di gustosi libri gialli come quelli di M.C. Beaton. Nell'evolversi della vicenda c'è spazio per l’emergere di quadretti familiari, che si riallacciano ad altre realtà dei nostri giorni. Così con la figura del figlio Fosco, studente alla Bocconi, lettore accanito dell’Economist, impregnato di cultura liberista ma poi affascinato dalle esperienze olivettiane. Oppure quando le tre ragazze scoprono in vecchie fotografie ingiallite la presenza dei loro attuali persecutori aziendali, un tempo impegnati in scatenati cortei di Lotta continua. O ancora quando si racconta di un programma televisivo in Usa dove dipendenti delle aziende in crisi si chiudono in una villa e per salvarsi il posto cercano di farsi fuori a vicenda, rinfacciandosi davanti alle telecamere mancanze e difetti con l’aiuto del pubblico. Sono le farse e le tragedie dei nostri giorni e Marina, sogghignando, ci aiuta a riflettere.
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