La recensione di Paolo Ciampi“Per quanto un albero possa diventare alto, le sue foglie, cadendo, ritorneranno sempre alle radici”. Tra le infinite citazioni sul senso e sul sentimento del viaggio, è con questo antico proverbio cinese per la testa che ho terminato la lettura di Le rughe di Cortona, l'ultimo libro di Tito Barbini. Come capita spesso con la saggezza orientale, le parole sono semplici ma ciò a cui fanno riferimento è senz'altro più complesso. Siamo noi, quell'albero. Siamo noi quelle foglie che ritornano alle radici. Semmai è quel “per quanto un albero possa diventare alto” che mi convince meno. Non “per quanto”, ma “proprio perché”: questo è come la vedo io. Proprio perché si cresce, proprio perchè con le nostre foglie si tocca il cielo, è ovvio, naturale, necessario tornare alle radici.È esattamente quello che penso a proposito di Tito Barbini, scrittore e viaggiatore, o viaggiatore e scrittore, nell'ordine che si preferisce, ma anche persona che da lungo tempo ho avuto la fortuna di conoscere. È un albero cresciuto alto, Tito. Un albero che ha saputo liberarsi da ciò che lo appesantiva e lo piegava. A un certo punto della vita Tito ha smarrito la strada – ed era una strada chiaramente segnata, apparentemente obbligata. A posteriori è stata la sua fortuna. È da allora che si è messo davvero in cammino: con i viaggi – che lo hanno portato verso le mete più remote e affascinanti – e con le parole – che certo sono un altro modo di viaggiare. Per tutto questo oggi può tornare alle radici. Può cioè vivere l'esperienza più importante per il viaggiatore: il ritorno. Non è affatto scontato, anche se è un pezzo che Tito ripete, a beneficio di tutti noi, che il viaggio è vero viaggio solo se implica il ritorno. Altrimenti è fuga, esperienza legittima, a volte necessaria, ma che non è il viaggio. Oppure è partenza fittizia, che non chiama in causa ciò che siamo e che possiamo diventare: turismo di molti chilometri e poca sostanza. Non credo sia un caso che la letteratura – almeno la nostra letteratura – diventa davvero tale con una storia di un viaggio, l'Odissea. Un viaggio, prima ancora che una guerra. E non è un caso che questo viaggio sia in realtà un lungo, faticoso, contrastato ritorno.E lo so che è un paragone ingombrante, ma con queste pagine Tito si è seduto accanto a me come un Ulisse con cui posso condividere parole e storie. E Cortona – straordinaria città che più volte ho avuto modo di visitare – ha progressivamente perso i suoi contorni per sfumare nel mito e diventare un'Itaca di Toscana.Dopo averci accompagnato nelle estreme propaggini della Terra del Fuoco, sulle vette dell'Himalaya o alle sorgenti del Mekong, Tito ci ha fatto il regalo più bello: il ritorno a casa.Il regalo più complesso, anche, perché penso che per uno scrittore di viaggi non ci sia niente di più difficile che raccontare il ritorno.Vero che Tito è uno scrittore di viaggi molto particolare, che rifugge il diario, il resoconto, la narrazione lineare nel tempo e nello spazio. In particolare, con Antartide. Perdersi e ritrovarsi alla fine del mondo, il grande vuoto artico e il silenzio dei ghiacci avevano permesso di scavare impietosamente dentro e di amputare tutto ciò che alla vita non è davvero essenziale. Ed ecco, mi sembra che Le rughe di Cortona possano riallacciarsi solo a quel libro, tra quanti ne ha pubblicati Tito in questi anni. Come se sulle mappe della vita avesse saputo tracciare una rotta diretta tra l'Antartide e Cortona. Anche questo un viaggio per sottrazione, per rarefazione. Ma solo per ritrovare l'origine, il porto sicuro, ciò che ha permesso tutto ciò che è venuto dopo. E come non è diario il viaggio, non è autobiografia ciò che è stato. È assai di più, il lavoro della memoria – e non a caso Tito afferma all'inizio: la memoria è tutto ciò che siamo. Diceva William Wordsworth: “Il bambino è padre dell'uomo adulto”. Si comincia così e il resto è viaggio – l'albero che cresce – il resto è ritorno e memoria – le radici.
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