Questo post è dedicato a Michele Testa, che tempo fa mi aveva suggerito di dare un’occhiata allo speciale di Le Scienze sulle città, numero di novembre. In realtà è andata così: io ho passato le ultime settimane convinta che Michele mi avesse chiesto cosa ne pensavo di quello speciale, suggerendo addirittura che contenesse idee diverse dalle mie. Quindi io me lo sono procurato e l’ho letto tutto, scrivendo appunti per commentarlo sul blog. Alla fine vado a rileggermi il commento di Michele, e mi accorgo con orrore che la mia memoria è molto più fallace di quanto credessi, e che semplicemente mi era stata segnalata l’esistenza dello speciale, senza nessun commento particolare. Io però ormai mi ero infervorata e avevo scritto una lunga serie di osservazioni, e siccome non resisto alla tentazione di dire la mia, e mi dispiace butttare via tutto, eccole qui. Magari a qualcuno interesseranno ugualmente.
Con tutto il rispetto per il molto interessante materiale raccolto dalla rivista, la premessa fondamentale nonché tesi della redazione, che le città siano “la soluzione ai problemi della nostra epoca”, mi pare completamente priva di senso. Come sottolineano i molto più sensati interventi finali, la città non esiste senza la campagna che la circonda e da cui trae il suo sostentamento (naturalmente ci si dimentica di boschi, aree protette, spazi intatti… come al solito) – parlare di città dimenticando questo è come discutere di un tavolo senza le gambe.
Cercherò di andare per ordine, anche se sto commentando una settantina di pagine ricche di spunti e informazioni, che abbracciano esperienze umane varie e vastissime – forse troppo per rientrare, appunto, nella forzata affermazione riassuntiva di cui sopra.
Innanzitutto, lo speciale nel suo complesso non mi sembra molto ‘scientifico’, a meno che non si voglia considerare una scienza l’economia, e io mi rifiuto. Tralasciando l’impostazione aridamente economicistica (più crescita! più tecnologie! più libertà imprenditoriale!), la presentazione dell’argomento è selettiva e incompleta. C’è confusione causa-effetto (questo succede in città quindi la città porta a questo); assoluta arbitrarietà nella selezione delle prove a sostegno delle proprie argomentazioni (qui è andata così, laggiù va colà – su migliaia di anni di storia e su un mondo intero); mancanza di chiarezza nelle definizioni (di che città stiamo parlando? alle volte ci si concentra sulle metropoli, curiosamente perché in Italia le metropoli sono solo, a seconda di come le si conta, da due a quattro, e per giunta piccole per gli standard mondiali; altre volte invece si parla anche di città medie, insomma ci si perde); completa noncuranza dei limiti fisici della crescita, come se le buone idee potessero superare sempre qualunque scarsezza. In generale lo speciale soffre dell’atteggiamento che a me pare comune a tanta stampa divulgativa, almeno in Italia: oltre a un’analisi univoca e parziale, la tendenza a presentare ogni nuova tecnologia non come opzione da valutare, ma come la salvezza.
Il senso dell’intero speciale sembra essere: preparatevi a vivere come sardine, perché dovrete essere più efficenti. Una prospettiva terrificante – e penso non del tutto ben accetta nemmeno agli stessi “cittadini”, che siano il miliardo circa di abitanti delle “dinamiche” e “creative” favelas e bidonville, che abitano in condizioni miserevoli un cui significativo miglioramento, però, aumenterebbe i consumi mondiali probabilmente oltre il livello di tollerabilità, oppure i più agiati cittadini ricchi, che poi però si riverseranno in masse sempre maggiori su montagne, mari e campagne, a cercare quello che la città non da, e a devastarlo pur di ammirarlo.
A sostegno della città ci sono molte argomentazioni, che non ripeto; io faccio piuttosto una rapita carrellata di quello che gli articoli non dicono, e mi scuso per l’abbondanza di domande.
Da quali tecniche di coltivazione dipende il sostentamento materiale degli abitanti delle città? Oltre agli orti urbani, ottima pratica che però non potrà soddisfare l’intero fabbisogno, come si coltiverà tutto il cibo necessario? Con che conseguenze per il suolo, le acque, la fame di petrolio dell’agricoltura meccanizzata, il paesaggio, e così via? I contadini, o chi in generale estrae o lavora la materia senza cui tutte le cose che si vendono in città non si potrebbero neanche fare, come i vestiti o le scarpe, vogliono veramente sostenere una sempre crescente popolazione cittadina che traffica in idee, fornisce ‘servizi’, ma potrebbe anche essere vista come, almeno in parte, parassitaria? (questa questione mi sta talmente a cuore che sto provando a coltivare patate sul terrazzo)
Perché i rapporti umani cittadini dovrebbero essere più autentici, stimolanti, arricchenti di quelli dei paesi o delle zone rurali? Questa nozione, molto ripetuta negli articoli, mi lascia seriamente perplessa. Ho visto tanta solitudine o chiusura nelle metropoli, e socievolezza nei piccoli centri dove ci si conosce, che mi sembra la questione dipenda da tanti fattori tra cui la dimensione del centro abitato non è certo la più determinante.
Cosa sa un cittadino della terra, del bosco, delle stagioni, del clima, degli animali di una fattoria? Poco. Possiamo vivere, come specie, ignorando queste cose, oppure possiamo permetterci di delegarle a una percentuale sempre più ridotta della nostra comunità? Io credo di no.
Possiamo pensare di vivere senza lo spazio aperto attorno a noi, senza il verde se non piccoli parchi artificiali, senza panorami se non quelli che pochi fortunati scorgono dai palazzi più alti, senza il silenzio se non quello che si trova comprandosi la seconda casa e riducendo la montagna al parco giochi dei cittadini (come quelli che vanno in Carnia con i macchinoni e fanno ammazzare il gallo perchè li sveglia la mattina, per capirci)? Fisicamente possiamo, così come possiamo vivere in ambienti squallidi, o mangiando cibi sgradevoli, o senza avere amici – possiamo, ma perché dovremmo desiderarlo? Perché ce lo dicono gli esperti di Le Scienze?
Altra questione importante: da dove vengono i materiali con cui si devono costruire le crescenti città? Così come il cibo, a leggere gli articoli di questo speciale pare che anche acciaio, cemento, pietra e legno piovano dal cielo. Invece fuori dalle città si mangiano montagne, si abbattono boschi, si aprono cave, si estraggono metalli, si fonde l’acciaio in fabbriche infernali… mentre qualche architetto dà interviste sul futuro dei grattacieli come se si costruissero col Lego.
Permettetemi di aprire una parentesi sui grattacieli, perché l’articolo dedicato mi ha fatto accapponare la pelle (che, lo ammetto, si accappona facilmente). Sì, New York è bella, e anche le altre città che ho visto con i grattacieli mi hanno affascinato, ma io non ci vivrei mai, non voglio grattacieli fuori dalle mie finestre, e prego con tutta me stessa che questa febbre di priapismo edilizio che ha contagiato il mondo intero stia fuori dal mio paese per sempre (troppo tardi).
Io odio i grattacieli. I grattacieli condannano al buio chi sta sotto di loro, concedendo la vista solo a chi sta in cima; non interagiscono con il verde; si somigliano tantissimo tra loro e rivaleggiano in altezza anziché bellezza; snaturano il contesto che li ospita contrapponendosi a tutto ciò che li circonda (a meno che non si tratti di altri grattacieli); omologano le città del mondo, tanto per cambiare, al modello americano, ed esprimono l’ego dell’architetto e del committente anziché la storia della città o le preferenze di una comunità.
Vivo in una città, anche se piccola, e non sono contraria all’idea di addensamento, che anzi mi pare una necessità, ma anche i nostri vecchi borghi, dalle Alpi fino alle punte meridionali della penisola, erano costruiti per addensare le persone. Ci si può addensare non pretendendo di avere un giardinetto a testa e la macchina di proprietà, seguendo ad esempio il modello di casa in corte, con un giardino o un orto condiviso, superando la famiglia nucleare o trovando nuovi modi per vivere assieme, combinando altezze non eccessive con prossimità edilizia e riduzione di spazi inutili quali parcheggi e viali d’accesso per le auto, e spostandosi coi mezzi che si viva in una grande città o in un piccolo paese.
In conclusione, lo speciale di Le Scienze non mi è parso ‘scienza’ in senso di metodo conoscitivo, ma propaganda di una concezione del futuro che mi spaventa e che non condivido, e a cui si possono opporre infinite alternative migliori.