Torniamo un attimo indietro, alla affermazione " il movimento contribuì al superamento del classicismo accademico e al rinnovamento dei mezzi espressivi".
Sarà anche così, ma a noi, ad un esame accurato delle opere così concepite e create, non sembra proprio. Cosa è rimasto del futurismo oggi, a distanza di un centinaio di anni, che possa dirsi "far parte della letteratura italiana"? Nelle antologie scolastiche ad uso di qualsiasi tipo di istituto, oggi non c'è più notizia di tale movimento; in quelle dei mie tempi, al futurismo veniva riservata, sì e no, una mezza pagina, e solo a scopo di nozione, per non dire di curiosità. Più spesso, e talvolta in libri non propriamente scolastici, se ne parla come movimento più vicino alla politica e alla società del tempo, che non alla letteratura. Delle opere nate sotto l'egida di tale "iniziativa" non mi pare che se ne ricordino molte, se si esclude la sola che viene (veniva?) pubblicata sui libri di scuola, quella Fontana malata di Palazzeschi, dai rumori veramente "malati":
- clof, clop, choch, / cloppete,/ cloffete/ clocchete/ chchch....
- /.... / e giù nel/ cortile/ la povera/ fontana/ malata, / che spasimo/
- sentirla/ tossire/...,
poesia che io stesso, in trasmissioni eseguite in radio libere e in spettacoli di poesia, ho proposto e riproposto al pubblico, solo ed esclusivamente per la musicalità che essa presenta, e per un omaggio al grande Palazzeschi, oltre all'originale recitativo da me composto, intitolato appunto " Il futurismo", che presentai più volte al pubblico negli anni novanta insieme al mio gruppo appuntamento con la poesia.
Il resto, per parodiare allegramente il cantante autore Franco Califano, " tutto il resto è noia"!
Con l'adozione dei due princìpi suddetti, dunque - verso libero e paroliberismo - sorge spontanea la domanda: esiste la poesia? esiste il racconto? esistono il romanzo, la novella? esiste la "letteratura"?
O non si è provveduto a distruggere solamente, per lasciare libero spazio a "parole in libertà, usando la forma libera del verso"?
Non dimentichiamo, nel porre la domanda, che ilMarinetti era un eccezionale declamatore, diremmo meglio un attore-istrione, che iniziò la sua attività, in teatro.
Nel 1900 decide di dedicarsi solo alla letteratura (aveva allora 26 anni) presentando "cosiddetti" spettacoli di poesia in Francia e in Italia, recitando e leggendo versi non solo di poeti italiani, ma anche e soprattutto di poeti francesi.
Fu così che il Marinetti prese (e riuscì) a diffondere, nel nostro paese (ed è uno dei pochi meriti che gli vanno riconosciuti), la poesia diBaudelaire, di Rimbaud,diVerlaine e di tutti quei poeti transalpini che andavano per la maggiore nella rive gauche de la Seine, in quellaParigi della fine ottocento.
Poi, dopo l'invenzione e la pubblicazione dei manifesti, mise in pratica il futurismo, con lettura e declamazione delle neonate opere, aiutato in ciò da alcuni o molti poeti e scrittori futuristi, appunto; e con loro venne a trovarsi anche il malcapitato Palazzeschi, che quasi sempre - avendo una voce esile e una poca o nulla faccia tosta, (ciò che era richiesto dalla bisogna) - doveva venire sostituito da altri compagni di avventura, o di sventura, quando non proprio da lui, il Filippo Tommaso, stante la gazzarra che gli spettatori mettevano "in scena" in platea, rispetto a quella che gli attori mettevano in scena sul palco, palco preso di mira da atroci invettive e lazzi e lancio di erbe e frutta. Erano queste le serate futuriste.
Quella del 12.1.1910 al Politeama Rossetti aTrieste. Palazzeschi si presenta, al suo turno, per declamare "la regola del Sole ". Sulla ribalta la sua poca voce viene soffocata quasi immediatamente dallo strepito incredibile e dagli schiamazzi di un pubblico incandescente.
E quella dell' 8 marzo dello stesso anno alPoliteama Chiarelli di Torino. Anche qui atmosfera surriscaldata. C'è da dire che i presenti sono più calmi che a Trieste. Ciò nonostante, Palazzeschi interrompe la sua lettura. Gli subentra Marinetti, la cui presenza sul palco genera quello che fino ad allora non è successo: urli e fischi sommergono ogni cosa.
Ultima ma non ultima, la serata del 20 aprile alTeatro Mercadante a Napoli. Ancora elettricità in sala. Al già sperimentato nelle sale nelle precedenti serate, si aggiungono gli ortaggi: patate, pomodori, frutta varia, dalla platea al palco; tutto in allegria.
Ecco: questo (anche questo) era il futurismo.
Come poteva Palazzeschi viverci a lungo? Resistere? Doveva durare poco. E fu così.
Finì in breve un altro periodo del suo vivere giocondo, di quella giocondità che le sue poesie avevano il dono (il pregio?) di generare; confessò a Giacinto Spagnoletti:
"allorquando ne volli far parte agli altri, tutti si misero a ridere,
ridere tanto da doversi reggere la pan cia". G. Spagnoletti, Palazzeschi, Longanesi, Milano, 1971, pag.68
Non poteva, questo nuovo modo di fare poesia (e prosa) che il Marinetti propugna a spada tratta, essere più utile, più aderente alla dizione in palcoscenico? Abbiamo provato anche noi a declamare a voce alta, davanti ad un microfono, alcune poesie dell'epoca futurista; e dobbiamo convenire che l'idea appena esposta potrebbe non essere completamente errata.
Fatto sta che Il Marinetti e i suoi amici futuristi "scrissero" secondo i nuovi canoni e, lasciatecelo dire, ne combinarono di tutti i colori. Non furono certo, Marinetti e gli altri, scrittori sprovveduti e mediocri, tutt'altro! Scrivevano bene, sapevano usare la penna; ma erano dei costruttori abilissimi e dei mestieranti convinti e capaci, che si attenevano strettamente alle regole dei manifesti.
Non erriamo se affermiamo che le cose migliori che "crearono" furono proprio "i manifesti".