Le sirene di Ugento

Creato il 04 maggio 2012 da Cultura Salentina


Ugento la ruvida, coi suoi 11301 abitanti, a sud di Lecce, sorge su uno dei punti più elevati di un dosso calcareo che si estende da Melissano a Gemini, villaggi che risalgono all’età del bronzo, età di verdi silenzi e aggrovigliate chitarre; Oxentum la guerriera, uno dei più importanti centri messapici nel secondo e terzo secolo A.C, quando regnava il mitico Artas, splendido re che cavalcava due cavalli di rame, insieme, e guidò la battaglia vittoriosa contro la spartana Taranto. Artas, lontano, enigmatico, fatto di dorati sospiri e cenere di stelle.

L’antica Ozan (significa fortezza, o città di Zeus?), fondata duecento anni prima di Roma, è, per me, un’ ombra lunga, infinita, di ricordi, uno strascico di memoria degno degli antichi déi, un germoglio di vento profumato, uno specchio di melodie e di mute grida, che mi richiamano alla mente tante cose, una folla di cose che fanno ressa, e paglia d’acqua: ecco il sanguigno Mirko Urro, geometra, storico e archeologo, nella sua casa di Torre San Giovanni di Ugento, costruita sul demanio marittimo, con tutte le tensioni e i contrasti di una dolorosa “acquisizione allo Stato”, leggi una causa aspramente combattuta…e perduta. E poi il giovane don Tonino Bello, Grande Anima Salentina, allora rettore del Seminario, e ala destra impareggiabile, alla Garrincha, funambolo spettacolare e straordinario in ogni sua manifestazione, perfino nei tornei parrocchiali. E come non ricordare i favolosi giganteschi gelati cogli ombrellini colorati di Mesciu Pici, che erano vere e proprie armonie del creato, delizie senza fine, da far invidia allo stesso Zan-Zeus ugentino di Urro, scambiato a lungo per Poseidone, che un tempo, forse, nel mare di Ugento, – col suo porto sulla punta occidentale della messapia meridionale, – aveva la sua dimora e di tanto in tanto risaliva dagli abissi, tutto verde smeraldo e con le mani di un rosso biancore corallino.

E poi il sogno, le navi, i cespugli di campagne assolate, i deserti e le rocce puntute della Marina di Alliste, le foreste di orologi, e la morte, per annegamento, nelle acque antistanti lo scoglio di Pazze, di un ragazzo di soli diciotto anni. Infine, l’incaglio, assai rischioso, con una cisterna carica di materiale infiammabile, che andò a finire, come altre mille navi prima di lei, nelle famose secche di Ugento, dove un tempo stavano le sirene dal viso di luna e il corpo verderame, come la fronte infida di quel mare. Come non ricordare quei giorni febbrili e intensi, quelle ore incerte, quando a me tutto sembrava confuso, mentre intorno alla “secche di Pirro”, – piccole colline rocciose affioranti da fondali di 6-7 metri fino a raggiungere la superficie del mare a pelo d’acqua, cavaddri di schiuma e di polvere di mare -, si tessevano reti sonore di speranza, ma forse erano i canti delle sirene cieche, che tracciavano neri arcobaleni e un arco di viola che faceva vibrare lunghe corde di vento.

Erano i primi anni ’80 ed era Comandante della Capitaneria di Porto di Gallipoli lo ieratico, aristocratico, riservato signore dello spirito e del buon gusto, Carlo Stea, ugentino purissimo e responsabile di tutte le mie “malefatte” salentine. Infatti fu lui che mi portò con sé – in un momento di fantasia dissonante, dove l’anima è più lontana, fredda, ma anche più ardita – nella Capitaneria di Porto di Gallipoli, quale responsabile della Sezione Demanio.

Come si fa, caro Ammiraglio, a non ricordare quei giorni e quelle notti che abbiamo trascorso assieme, in quella circostanza, con tutte le implicazioni e i timori e i pericoli di ordine pubblico? Quella maledetta cisterna, il rimorchiatore da Taranto, gli elicotteri, i piloti, e la Guardia di Finanza, i carabinieri, la Magistratura, il Prefetto ?, e noi che prendemmo fissa dimora presso l’albergo il Poseidone, dov’era stata trovata la statua antica (ma era Zeus e allora non si sapeva) del compianto Albertini, e i parrucchieri del Salento che avrebbero pianto per la fine totale dei nostri capelli? C’era, in quella situazione, un misto di grottesco, banalità, civiltà, e cosmo, come tutte le cose della vita, del resto. Sì, hai ragione, caro Benemeglio, ma sai, ormai, per me son cose lontanissime, ho più di ottant’anni! Non ricordo più.
Clic!

Probabilmente fece clic senza saperlo, i giorni e le parole, l’ ora il dove e il quando e il fremito dell’aquilone ugentino. Si ricordò quel tempo in cui guardava gli iperonti, nubi caste, di una bellezza astratta, intellettuale, d’analisi superiore, i canti del mitico domani di Giunio Lutriola, e quando faceva squillare l’aquilone colorato in cielo, con grida da fanciullo, ed era meglio dei fanciulli greci o turchi, allora. E poi ammazzava i passeri, prima con la fionda, e poi col fucile. Mi confidò una volta il vecchio capo Marino, Delegato di Spiaggia di Leuca, cacciatore come lui, che aveva conosciuto Stea da tenentino, a Brindisi (il sole in faccia e il vento di Brindisi “testa di cervo” è sempre fastidioso), che era uno spirito solitario, i suoi veri amici erano i sacerdoti del silenzio e i cani, soprattutto i setter. Ne aveva avuti tanti, ma mia moglie ed io avremmo per sempre ricordato Mara, la dolcissima, con la coda d’argento, che guardavamo correre come freccia bianconera nella pineta Senape di Gallipoli. Ed era un candido essere pieno di gioia, lontano, lontanissimo dalle meschinità degli uomini.

L’ammiraglio Carlo Stea amò sempre l’orlo a giorno delle fronti dei cani, e le nubi dei tramonti gallipolini, le piume di fuoco, che brillavano, dapprima rosa e poi rosse, come frecce di sangue, come tagli nella carne del cielo. E’ un uomo molteplice, l’uomo dalle tre anime, – quella di Ugento, la città che lo ha visto nascere, Gaeta, forse la sua dimora più amata, e infine Gallipoli, la città che lo ha adottato.

Che fa, ora, vecchio Ammiraglio, con i suoi ricordi? Innalza il suo sogno fino ai campanili della vecchia cattedrale di Oxentum, dove è stato battezzato ottantatre anni fa; è tornato nei boschi, ragazzo, e intaglia fioriture bizzarre. Eccolo che naviga con i corsari verdi, e sosta nelle secche, dove stanno – liete e profumate – le sirene d’Ugento che agitano rosei diti per dissipare ombre, fanciulle che esibiscono tremanti le loro grazie divine, e i rami in fiore, e chiedono il conto esatto del loro tempo.
Clic!.

Qui ha fine il mare di Ugento, dove si insabbiarono le navi di Pirro, e dove perirono marinai ellenici sedotti dalle voci delle mitiche sirene “sfiorate dall’aspro rotolare dell’onda“.

Roma, 28 aprile 2012


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