9 Gennaio 1983
di Marco Cavalli
9 gennaio 1983. Stiamo percorrendo Casarsa della Delizia, in provincia di Udine, diretti alla casa delle sorelle Colussi, zie di Pier Paolo Pasolini. Sosta d’obbligo nel piccolo cimitero di Casarsa. Pasolini vi è sepolto accanto alla madre, due lapidi quadrate di marmo bianco, indistinguibili da lontano. Resto un po’ a pencolare sulle tombe sforzandomi di evocare la faccia di Susanna Colussi in Pasolini (1891-1981). Il figlio le fece interpretare il ruolo della Madonna nel Vangelo secondo Matteo, film che ho visto una volta sola, in colonia, dove sentivo bambini e bambine in fila per due strillare in coro “Pier Paolo Pasolini è morto di un male inculabile”, serissimi, finché le signorine in grembiule non li zittivano scambiandosi sorrisetti d’intesa, come complici di un delitto ormai impunibile.
Della biografia di Pasolini, di cui so tutto grazie alla Vita di Pasolini (1978) di Enzo Siciliano, mi ha sempre infastidito l’insistenza sull’infanzia, il rapporto idilliaco con la madre e quello conseguentemente incasinato con il padre Carlo Alberto, autoritario e fascista come tutti i militari di carriera. Le infanzie sono inermi in ogni senso, troppo facilmente manipolabili. Le puoi voltare e rivoltare a piacimento e cavarne premonizioni ad hoc, tutti gli indizi che servono a darti ragione. Più inventi, più indovini. Per me nel 1983 Pasolini voleva dire le sue poesie e basta, in particolare le poesie in friulano, i loro suoni tambureggianti che irrompono col favore delle rime nella mente e non se ne allontanano più malgrado il significato sfugga o affiori in ritardo.
Mi chiedo, ora, in che cosa Tal cour di un frut (Nel cuore di un ragazzo) è superiore alla Ballata delle madri, che potrei recitare a memoria alle sorelle Colussi non appena mi verranno presentate, quale rito propiziatorio o forse banalmente adulatorio. Devo pur scusarmi di non aver cercato io questo incontro, casomai me lo chiedessero. L’idea di far visita alle zie di Pasolini non è partita da me. Come le opere del loro nipote famoso, è stato un caso a procurarmi l’occasione, facilitato dalla generosità e dallo zelo di qualcuno di più grande e benintenzionato. Ora che sto per conoscerle, vorrei rispettare il caso, godermi la superficialità dell’incontro, resistere all’impulso di mostrare troppa riconoscenza. Essere come un orientale per il quale il più piccolo pezzetto di stoffa è un letto, ma che non dimentica di non avere ancora alcun desiderio di coricarsi. Per giunta sono accompagnato dai miei genitori, è proprio come se venissi in processione.
Arrivano tazzine del secolo scorso in bilico su un vassoio da tè nero e oro di due secoli prima – e siamo nel 1983! Mi ritrovo a stringerne una piena fino all’orlo, il liquido bollente trabocca; “Giannina, fa’ attenzione!” esclama il più grigio dei due coboldi e in un lampo il più piccolino si protende verso di me, certo per trarmi d’impaccio; non faccio in tempo a tirarle indietro che incespica sulle mie scarpe e finisce lunga distesa sul pavimento senza emettere un rumore o un gemito, in un silenzio irreale, definitivo. Non faccio in tempo ad alzarmi e a pensare “È morta, e per colpa mia” che Giannina si è già rimessa in piedi, la sorella l’ha rialzata mettendoci la stessa scioltezza che se raddrizzasse una sedia caduta. Non si è fatta niente, ed Enrichetta non ha neppure l’espressione seccata. Ridono entrambe, di cuore, e non per sdrammatizzare bensì per puro divertimento – due attrici d’avanspettacolo che hanno replicato con successo una gag di repertorio. Io mi sento importuno, sciocco, con le gambe molli dello scolaretto che ha appena scoperto di esser stato rinviato a settembre in due materie fondamentali: presenza di spirito e uso di mondo.
Mi chiedo che cosa sono venuto a rubare io.
Il fascicoletto delle Poesie a Casarsa mi scotta le dita. Accettare un regalo impensabile, mai nemmeno vagheggiato, è un modo elegante e moderno di proseguire il saccheggio? Lo restituisco a Enrichetta, che lo porge a Giannina. Lei me lo rimette in grembo con un sorriso di sfida, luciferino. Vuoi vedere che per vendicarsi di essere inciampata su di me sta per farmi il più perfido degli sgambetti?
Chiedo a Giannina se in casa Pasolini si parlasse il friulano. “Oh no, si parlava l’italiano. Un po’ il veneto, talvolta, e tra Colussi, in prevalenza. Ma la norma era l’italiano. Su questo Susanna era intransigente quanto il marito. Il dialetto di Casarsa Pier Paolo lo ha imparato dai contadini, stando in mezzo alla gente del popolo. Le sue prime poesie furono scritte in italiano. Solo dopo l’estate del ’41 si è deciso a comporne qualcuna nel friulano parlato di Casarsa. Un atto d’amore verso sua madre, perché i Colussi sono originari di qui.”
Fa uno strano effetto sentire la voce di Giannina scandire: “Per i cigli assolati ed il consueto/ silenzio della candida campagna,/ cullo una solitudine mortale/ nel mortale mattino; che da sempre,/ imbianca col suo lume i vivi campi.” Sono esercitazioni metriche, un filtraggio accorto dei classici italiani, da Leopardi a Carducci, con inserti di simbolismo francese.
Nonostante una vita movimentata, la notorietà, la persecuzione giudiziaria, Pasolini non è stato un bohèmien. Era un provinciale colto, ispirato, con forti inclinazioni puritane. Il suo genio era di tipo contemplativo, pittorico. Quando, come nelle poesie delle Ceneri di Gramsci, vi si intromette il ragionamento, di solito di natura politica e di intonazione polemica, prende anch’esso la forma di un paesaggio. Quel che di invecchiato e forse di gretto si ritrova oggi nel ragionamento pasoliniano, diventando un elemento figurativo acquista la stessa ambivalente bellezza che Pasolini ravvisava nelle architetture fasciste della città di Sabaudia: ridicole nel loro credersi eterne, incantevoli nella loro sopravvivenza archeologica.
L’intera vicenda umana di Pasolini è intessuta di un’ambivalenza simile. Molte sue scelte esteriormente contraddittorie e di non immediata decifrazione si possono ricondurre a una ferita originaria, mai rimarginata: lo scandalo di Ramuscello del 1949, la denuncia per atti osceni e corruzione di minori. Costretto a rivelare la propria omosessualità, anche ma non principalmente a se stesso, Pasolini la perde assieme a quel che resta della giovinezza. Perdita tanto più dolorosa in quanto riguarda qualcosa di cui fino a quel momento Pasolini aveva potuto negare l’esistenza. Il licenziamento, l’espulsione dal partito comunista, servono solo ad affrettare la fuga a Roma in compagnia della madre. L’omosessualità e la giovinezza, abortite o non vissute fino in fondo, rimangono a Casarsa. Finiranno idealizzate, trasfigurate nelle utopie politiche e artistiche che hanno reso Pasolini dapprima famigerato e poi famoso, immeritatamente in ambedue i casi.
A Roma Pasolini vive una sessualità di ripiego proiettando la fisicità maschile del suo paese d’elezione, fisicità umana non meno che geografica, nei territori del Terzo Mondo, rispetto al quale mostra il contegno sdegnato di certe signore brianzole che vanno in vacanza nello Yemen e ritornano deluse di aver visto un indigeno bere coca-cola in lattina indossando un berretto da baseball. Il Terzo Mondo lo affascina a condizione che si mantenga secondo al Primo, l’Occidente capitalista e consumista delle multinazionali. In Pasolini l’amore, come il delitto, si compie sempre nei medesimi luoghi: campi, pratoni, argini di fiumi, strade sterrate, terrapieni, in una luce glauca che sembra trasmessa da una distanza siderale – la luce di una stella morta, con l’impressione che essa dà di perennità dell’infanzia.
Dice Giannina: “Le prime settimane a Roma sono state durissime. Susanna accudiva i bambini di una famiglia. Pier Paolo abitava una stanza in affitto nel ghetto ebreo, poco distante dalla casa dove lavorava sua madre. Scriveva di sera: poesie, sceneggiature, romanzi.”
Loro hanno letto ogni riga, naturalmente. E i film? Visti tutti? Tutti. Anche l’ultimo? Anche l’ultimo. Mi piacerebbe avere qualche commento su Salò, tolto dalla circolazione a un mese dall’uscita, a cadavere di Pasolini ancora caldo, e sul quale la censura si è accanita con un istinto predatorio non inferiore a quello che mettono i giornalisti italiani nel moltiplicare a vanvera le inchieste sulla morte del regista. La cosa è fuori questione, ovviamente, tanto più che neanche i miei genitori hanno potuto vedere il film e quindi sono inclini a esagerarne la scabrosità. Però mi è permesso chiedere alle zie qual è il film del nipote che preferiscono. “Edipo re” risponde subito Giannina. “Anch’io” le fa eco Enrichetta dopo un attimo di esitazione. Arridaje co ‘sto Edipo, direbbe Ninetto Davoli.
Dico di no, esagero i gesti di diniego, le espressioni di gratitudine, soffocando nella commozione un po’ di fastidio per via di questo volermi arruolare a forza tra i ranghi degli accaparratori. Se non faccio dietrofront alla svelta l’avranno vinta loro, lo sento.
Poiché qualcosa devo prendere, chiedo loro di firmarmi la copia de La religione del mio tempo che mi sono portato da casa. Mentre Giannina si impossessa per prima della penna, Enrichetta mi sorride soave, indulgente. Come sono vive! Hanno tutto ciò che può umiliare la mia adolescenza così prevedibilmente esaltata, così poco esaltante: una storia alle spalle, l’allegria pronta, l’appetito sano delle vegliarde che sembrano un’invenzione letteraria ma che nessuno scrittore saprebbe inventare … Riuscirò mai a somigliargli non dico tra trenta, ma tra sessant’anni? Riuscire a non pretendere niente di più di ciò che si ha e avere l’aria di offrire tutto solo con la propria presenza?
Uscendo, mi scappa un sospiro di sollievo. Il volume che ho con me è quello con cui sono entrato, lo stesso che in questo momento se ne sta aperto sul tavolo.
Sul foglio di guardia una calligrafia giuliva: “Al caro Marco, cui auguriamo una splendida carriera. Giannina Colussi”. E uno spazio o due sotto: “Anch’io. Enrichetta Naldini”.
Marco Cavalli
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Cover Amedit n. 24 – Settembre 2015
“Noli Me Tangere” omaggio a Pier Paolo Pasolini.
by Iano 2015
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Questo articolo è stato pubblicato sulla versione cartacea di Amedit n. 24 – Settembre 2015.
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