Le storie sono già state scritte tutte. “Storia naturale di una famiglia” e “Settanta acrilico trenta lana”

Creato il 09 febbraio 2012 da Sulromanzo

Ricordo le parole di un maestro incontrato in un posto qualsiasi mentre si parlava di cose noiose mangiando dei panini precotti. Le storie sono già state tutte scritte, così diceva. Qualcuno ha continuato sentenziando che sì, è lo stile che conta. La ricerca di una voce. Della voce. Il messaggio è ciò che conta. Era un tipo generoso, il maestro, e non dava mai torto a nessuno. Annuiva, diceva sì allo stile, sì alla voce, certo la struttura. Ma si capiva bene che il suo pensiero era un altro.

Viola Di Grado e Ester Armanino esordiscono con la stessa storia. C'è una famiglia che si spezza, un padre che muore, una mamma che rinasce dopo un tradimento ma che prima impazzisce. Rinascita e morte. La morte di un padre vissuta da una figlia che si sente tradita (" Andavo da mio padre ogni giorno solamente perché lo amavo e lo amavo come prima che lui ci tradisse" -Ester Armanino) e, come si trattasse di qualcosa di opposto, in contrasto netto, la morte vissuta dalla moglie, fatta di rabbia per sempre, rabbia che passa solo per finta. Una falsa rinascita che attraversa lo sgomento per poi rimanere mutilata, per somigliare a un pezzo di bene che si custodisce con ferocia, per la madre, e una rinascita di individuazione, di posti da occupare, della scoperta della mostruosa umanità dei genitori, per la figlia. Madri e figlie ritratte in un groviglio isterico, molto silenzio e la simbiosi che si slaccia. La casa di quando si è piccoli in contrasto con la casa di quando non ci si ama più, sempre le stesse stanze viste da chissà quanti occhi e umori. La pasta in tavola, il frigorifero pieno e vuoto, lavare i piatti, mettere il pigiama, la luce sulle tende. I padri hanno l'amante, qualcosa da nascondere, qualcuno vicino che si scopre dopo. I padri armeggiano con fantasmi e mistero. Le madri non sapevano, non sanno mai, crescono i figli e diventano sorde, fanno la pasta al pomodoro e mescolano il sugo fino al momento della grande rivelazione. Dopo la tragedia rinascono un pezzo, rinascono un po'.

Ci sono quantità infinite di universale, manciate di archetipi moderni, avanguardie di legami impensati. I padri tradiscono e muoiono, le madri non si accorgono di nulla, cucinano la pasta e rinascono lontane dalle figlie. Gli ingredienti per un mito sperimentale ci sono tutti.

Dunque la ricerca di una voce.

Viola Di Grado lavora sul linguaggio in modo sorprendente, lo interroga, lo deforma. Non ha mire seduttive, cerca di significare. In Settanta acrilico trenta lana c'è un grande (e bellissimo) lavoro sulla parola che inizia dal silenzio della madre che non c'è, ma è. Madre e figlia regredite ad una simbiosi pre-verbale si parlano a sguardi, pretendono comprensione. " Disse occhi del tipo Ma che vuoi? (...) Mi guardò col suo solito sguardo che-sta-succedendo, lo sguardo jolly che destinava alla maggior parte degli accadimenti intorno a lei. (...)Lei mi disse lo sguardo chiamato Camminare fino a lì davvero ce la fai? Io risposi quello chiamato Stai tranquilla penso a tutto io."

Viola Di grado si occupa di dolore in termini di simboli, di agiti, di feticci, di abitudini e di oggetti come a dire che il tormento dell'anima è vuoto di parole e ingombro di cose. L'autrice interroga il linguaggio seguendo la strada maestra delle associazioni, il romanzo sembra così essere ambientato in un sogno dove la realtà è al servizio di desideri, spinte e mancanze.

Ester Armanino riempie di immagini i vuoti che lasciano le parole, lo fa con una grazia brusca che commuove.

"L'ultimo giorno che ho passato con il mio cuore era domenica. Da anni la domenica non ci serviva più a niente, era un insieme di ore che trascorrevano lentissime come quando si è malati. Le persone cattive vanno all'inferno, ho pensato, le famiglie cattive nemmeno quello. Poi ho tracciato una linea nell'aria. Partiva dal gusto piccante del chili e finiva nel sapore del bambù".

Storia naturale di una famiglia e Settanta acrilico trenta lana sono attraversati da un incantevole animismo, una sorta di simbolismo panico che, lungi dall'essere gioiosa identificazione, diviene conforto e strumento per fare i conti con il reale. Dentro ho lo sgomento, fuori i miei punti di riferimento si sono rivelati troppo umani, tu realtà, tu 'cosa', riuscirai a spiegarmi? Ti scuoto un po', faccio sbocciare dei fiori di pesco in inverno, perché sono felice, mentre mia madre fa la muta, come un insetto rompe il suo corpo e lo lascia in cucina, e poi il nostro confronto sarà meno amaro. È poetico il dialogo con la natura, antico. Il rovesciamento del mondo è altra cosa. In questo Aldo Nove è un maestro, lo è quando scrive di una bottiglia di cola da discount: " Aveva, quella bottiglia, qualcosa di cristiano, un'imago Christi da poveracci, inconsapevole. Lei aveva fatto la sua ascesi dalla fabbrica ai banconi del discount dove aveva atteso di essere scelta in quanto oggetto di minor valore, in quanto imitazione ma dignitosa, quasi uguale [...] Sentivo che dovevo prendermene cura. Sentivo che lei si sarebbe presa cura di me." Considero La vita oscena di Aldo Nove un testo contemporaneo fondamentale.

Nei romanzi di Ester Armanino e di Viola Di Grado le 'cose' riescono a parlare oltre il linguaggio, le stagioni cambiano in armonia con gli stati d'animo. La realtà non respinge ma nemmeno avvolge, piuttosto diviene l'interlocutrice prescelta. Un'interlocutrice di cui non si ha soggezione; sfinite dal legame, uscite a pezzi dalla fusione, le due protagoniste scambiano il dentro con il fuori, provano a metterli sullo stesso piano. Contemporaneamente interrogano il linguaggio, la frase. Cercano un senso, rovistano in cielo, in una formica, nella lingua, scuotono una frase, la ribaltano e la riscrivono. E se serve usano un'immagine, e se ancora non basta capovolgono il mondo. Tutto per trovare una voce capace di tradurre il ritmo dei pensieri, le acrobazie della paura. Mi sembra un gesto di una libertà immensa che ha come eredità l'animismo moderno, le divinità spodestate, la sacralità delle cose da niente, la disperazione del vuoto 2012, rotte sbagliate e punti di riferimento in subbuglio. L'essere umano adulto non ha più tenuta ma, prima di scompensarsi per sempre, resta il poetico (e salvifico) tentativo di mescolare pezzi di sé con rami d'albero, formiche laboriose, maniche strappate, parole alla rovescia. Sta qui la salvezza, nella libertà e nel surreale che non perde di vista il reale. E non mi sembra poco. Qui sta, a mio parere, la possibilità di rinascita della narrativa italiana, nella sua libera virata oltre il realismo e oltre la dualità.

Le storie sono già state scritte tutte, la rivoluzione sta nella qualità dei pensieri.

"Il nostro tavolo era apparecchiato per due. "Mamma perché non hai apparecchiato per me?" E lei uno sguardo che comincia Stavi dormendo così bene e diventa Ti piacciono caro? La teglia era vuota. "Ma non me ne hai lasciato neanche un po'..." Livia Mega girò la testa e mi disse uno sguardo chiamato La prossima volta, promesso! Poi mi mandò un sorriso come una cartolina d'auguri natalizi a chi non vai mai a trovare."

Viola Di Grado, Settanta acrilico trenta lana, ( Edizioni e/o, 2011).

"Il sole divide in due anche Andrea, i suoi occhi belli e lui ne stringe uno senza spostare la testa. È una lama d'oro dove muovo una mano, restiamo a guardare le mie dita bagnate da quella sostanza strana che è la luce. Nelle sue ciglia mi sembra di riconoscere lo stesso dolore, a intervalli diversi. Di non essere sola."

Ester Armanino, Storia naturale di una famiglia, (Einaudi, 2011).


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