Mi sono ritrovata a ripercorrere nella mia mente i “carrer” di Barcellona alla ricerca di Aloma, Natàlia e Cecilia. Ho provato nostalgia non trovandole. Dalla Rambla sino a Piazza Catalunya, lungo Passeig de Gracia sono arrivata in Via delle Camelie, lì dove tutto ebbe inizio per la piccola Cecilia.
La Barcellona di Mercè Rodoreda è una città abitata dai fantasmi delle sue protagoniste. Uomini grotteschi, bambini rifiutati, donne silenziose: un mondo parallelo, a tratti circense, sospeso tra una realtà deforme e una dimensione onirico-burlesca.
L’occhio che la descrive coglie particolari inusuali, poetici, ributtanti e lo fa con la saggezza di chi ha visto, di chi conosce, di chi ha amato.
“Nel giardino ci fu una piroetta di rami e foglie, e da molto lontano mi arrivò un’ondata di ricordi: la ruota panoramica, i razzi, gli aghi di pino e le palline di vetro a strisce più dense e più chiare che rotolavano per un sentiero di pietre e polvere” (La via delle camelie – 1966).
Mercè Rodoreda ha vissuto e amato la sua Barcellona, anche nella distanza dell’esilio dalla dittatura franchista.
“Aloma” (1938) è il suo primo romanzo - riscritto dopo il trentennio di lontananza - e dentro c’è tutta la forza che caratterizza i suoi personaggi femminili.
Sono donne che affrontano la vita con l’amarezza del disincanto. Sanno vestire le delusioni di parole nuove. Sono dotate di una energia straordinaria e capaci di fragilità disarmanti. Osservatrici e visionarie, attraversano le strade della città alla ricerca di se stesse.
Cecilia della via delle camelie cammina vestita di rosa, segue i profumi e i colori di una Barcellona che sa incantare con i suoi volti sospesi, i tavolini dei caffè, le nuvole di pioggia e le sue strade “abitate” di fiori. Natàlia è intrappolata nella città della guerra civile, ingabbiata in una solitudine asfissiante almeno quanto i giorni fermi del conflitto.
Il loro mondo interiore è uno spazio mobile, in cui le immagini esterne, una volta riflesse, vengono spogliate della loro patina artefatta, per rivelare tutta la mostruosità di una società ferita e sfigurata.
E’ facile perdersi nella città di Mercè, così come sentirsi soli. L’amore è un male necessario per le sue donne, come la miseria interiore degli uomini che attraversano le loro vite. Il passaggio dal sentimento sconsiderato alla sottomissione mentale e fisica è inevitabile fino alla ribellione violenta e all’affrancazione, dolce e pungente come il profumo del tiglio.
La scrittrice catalana scrive dei luoghi della sua infanzia - come il quartiere Gracia di Barcellona - e delle sue passioni. E’ vivo in lei il ricordo di una città unica e molteplice, crudele e materna. Nel suo cuore si intrecciano i destini di un’umanità variegata come i fiori della Rambla.
La sua scrittura è diretta e imprevedibile: ci si ritrova ad indugiare su una frase, a rileggerne la straordinaria bellezza. Ci sono molti modi per descrivere un particolare: il suo è esattamente quello che non ci si aspetta.
Sono molte ragioni per leggere i libri di Mercè Rodoreda, oltre alla stima di Gabriel Garcia Marquez che ha definito “La piazza del diamante” (1962) il romanzo più bello che sia mai stato pubblicato in Spagna dopo la guerra civile. Una di queste è certamente il fascino contagioso della sua scrittura dentro la quale è facile perdersi come ritrovarsi.
“Mi guardai gli occhi e mi sembrò di non essere sola…Chiusi lentamente gli occhi e lasciai aperta solo una fessura per vedere come sarei stata da morta. E allora non so bene che mi successe, mi innamorai di me. Avevo sangue dentro, e ascoltai la vita del sangue, che a volte si fermava rosso, giù, lungo la seta delle cosce. Mi misi le mani sulla nuca e tirai su tutto il peso dei capelli. La mia pelle era tenera e i gomiti teneri e quel che provai non si può spiegare a parole: che io non ero come gli altri, che ero diversa, perché lì da sola…fuori dello specchio ero chi fa innamorare e dentro lo specchio ero l’innamorato”.
foto di Villalonga