Percy Shelley, secondo cambusiere, aveva il lato sinistro della faccia immersa nella sabbia del bagnasciuga mentre le onde lambivano le sue gambe scottate dal sole. Le labbra erano secche e spaccate dalla salsedine e la gola ardeva ancora dopo le urla della notte precedente mentre, aggrappato all’asse di una cassa, gridava l’aiuto di qualche superstite. Sollevò la testa e la girò lentamente, creando con il mento un sottile semicerchio sulla sabbia bagnata. La luce era intensa e la vista difficoltosa ma era comunque possibile distinguere una folta vegetazione non molto distante dalla sua posizione, con delle palme da dattero che facevano capolino in lontananza. La lingua di spiaggia bianchissima si perdeva a vista d’occhio su entrambi i lati e sul versante ovest s’intravedeva una piccola altura anch’essa verdeggiante.
Il giovane Percy accennò un sorriso ma fu subito infastidito dal bruciore alle labbra e dal dolore alla tempia sinistra, che riportava un profondo taglio non ancora rimarginato. Era stordito e disorientato. Non riusciva a capire quanto ci fosse di sogno e quanto di vero tra quei ricordi che pian piano si staccavano dal fondo della memoria e tornavano a galla, tra le urla degli uomini e il lamento agonizzante del Mayflower. Era sul punto di ululare di rabbia e gioia ma il ricordo degli occhi vitrei dei compagni non ancora inghiottiti dal mare, glielo impedirono. Era esausto, aveva sete ma soprattutto aveva bisogno d’ombra. Cominciò a camminare lentamente verso la foresta quando a circa un metro dai fusti d’albero udì in lontananza il suono, mai così melodioso, dello scroscio dell’acqua. Si fece largo tra la fitta vegetazione e corse sempre più velocemente verso l’origine della melodia mentre la temperatura si abbassava sensibilmente, così come la luce del sole.
Dopo circa dieci minuti di cammino, Percy cominciò ad avvertire il profumo dell’aria umida. Faticava a camminare e il terreno si faceva sempre più soffice e viscido. All’improvviso, come aprendo un sipario, scostò un’enorme foglia di forma lanceolata e si trovò davanti il dipinto di una scena idilliaca. Una piccola cascata alta circa cinque metri, con alle spalle un’aureola multicolore, si tuffava al centro di un pozzo naturale creando la miniatura di un paesaggio lacustre dalle matrici divine. Percy si spogliò, prese la rincorsa e si lanciò al centro del piccolo lago in un tuffo goffo e scomposto. Bevve a sazietà e si andò a sdraiare su un enorme ramo che correva a filo d’acqua. Mentre cercava di riprendere fiato e, soprattutto, capire come avrebbe fatto a uscire da quella situazione, sentì in lontananza voci di uomini e donne intonare un canto dai ritmi allegri. Incuriosito, indossò velocemente i pantaloni e si diresse cauto verso quelle voci in festa.
Le fronde degli alberi erano altissime e il loro movimento continuo creava un sottofondo ipnotizzante. La vegetazione rigogliosa e colorata regalava uno spettacolo affascinante ma rendeva il terreno sempre più difficoltoso da attraversare. La pendenza aumentava gradualmente e le voci dell’allegra comitiva erano sempre più vicini. Sebbene con difficoltà, Percy riuscì a vedere a circa cinquanta metri da lui un gruppo di uomini e donne seminude che cantavano intorno a un masso di pietra a forma di enorme biscotto. Gli uomini avevano la pelle scura, indossavano dei drappi di colore nero e giallo, che coprivano la zona del basso ventre, lacci verdi legati alla parte superire dei bicipiti e zanne feline conficcate nei lobi. Le donne avevano i seni nudi e il bacino coperto da filamenti di paglia, i capelli rasati e le guance decorate con disegni astratti. I volti erano sorridenti e il biscotto era pieno di frutta colorata e la carne cotta probabilmente di quattro o cinque grossi cinghiali.
I membri del piccolo villaggio non sembravano ostili e Percy era sul punto di uscire allo scoperto quando il suo volto si dipinse di orrore. Sulla destro del banchetto, a circa dieci metri, scorse una catasta di teste a formare una piccola piramide, tra le quali riconobbe anche quella del capitano Browning. Percy si premette violentemente la mano contro la bocca per non vomitare ma non riuscì a trattenere un brevissimo grido. I commensali non lo udirono ma i suoi occhi s’incrociarono con il viso di un bambino, vestito come erano vestiti gli uomini, che masticava qualcosa di simile a una… piccola pannocchia o… forse no. Il dito di un essere umano, Mio Dio! Il bambino lo guardò senza neanche scomporsi e, in un linguaggio incomprensibile, chiamò a raccolta una decina di suoi amichetti, per un totale di otto ragazzini dalle mascelle masticanti. Uno di loro teneva con la mano sinistra un orecchio umano senza più il lobo e, con l’atra, un bulbo oculare. Percy li guardò inorridito.
Dopo un veloce raffronto tra ciò che stava masticando e le dimensioni di Percy, il bambino fece uno sguardo d’intesa agli altri suoi amichetti e contemporaneamente saltarono tutti sul giovane cambusiere. I ragazzini cominciarono a morderlo sulle braccia e sulle cosce e Percy istintivamente scaraventò con un calcio uno dei ragazzini oltre la vegetazione. I tamburi cessarono di suonare, i bambini si dileguarono e quello a terra cominciò a piangere. Fu in quel momento che l’allegra compagnia di cannibali si accorse della presenza dell’intruso e si diresse in massa verso la sua posizione. Un coro indistinto di uomini e donne si miscelò a un prolungato e isterico “o cazzo!”
Percy corse con foga cercando di ripercorrere la stessa strada che portava al piccolo lago. Ogni volta che voltava la testa non riusciva a scorgere i suoi inseguitori ma vedeva la foresta prendere vita e udiva le voci sempre più vicine e aggressive. All’improvviso inciampò sul terreno viscido, cadde con la schiena su uno scivolo d’erba e fece un volo di una ventina di metri, fino a centrare un piccolo ma profondo specchio d’acqua. Tornò a galla e sentì le voci sopra la sua posizione che si allontanavano velocemente. Raggiunse la riva. Con il respiro affannato e il cuore che batteva al ritmo sincopato della musica autoctona, si sdraiò a terrà. Portò le mani al volto e cominciò a piangere, in preda al panico e ancora incredulo per ciò che aveva visto poco prima.
Dopo alcuni minuti, fece un lungo respiro e si alzò in piedi. Aveva bisogno di raggiungere un punto elevato per capire dove fosse e in che modo allontanarsi da quell’incubo e decise così di incamminarsi verso il promontorio che aveva scorto dalla spiaggia. Dopo circa un’ora di cammino, quando la sommità della collina era a quasi cinquecento metri dalla sua posizione, udì il grido supplichevole di un uomo. Per un attimo rimase pietrificato, pensando che fossero i cannibali ma la voce gli era familiare. Al grido si sostituirono i lamenti continui e sovrapposti di altri uomini che si interrompevano a ritmi costanti. Percy deviò dalla sua direzione originaria e si diresse laddove provenivano le voci. Vide la struttura di una decina di capanne costruite probabilmente con feci di animali essiccate e rami. Man mano che si avvicinava, cominciavano a prendere forma anche le sagome di alcuni uomini dalla pelle olivastra e le braccia tatuate. Non c’erano donne nei dintorni ma solamente un piccolo drappello d’individui disposti a semicerchio davanti a quelli che sembravano alcuni suoi compagni di sventura, denudati e legati a un grosso tronco. A Percy si ghiacciò il sangue quando capì che gli altri marinai erano i piatti forte di un tipo di banchetto diverso dal precedente. Un banchetto sodomita.
Il giovane cambusiere non seppe resistere al suo istinto di interrompere quello spettacolo così indegno e indecoroso. Prese un sasso da terra e lo lanciò con tutta la sua forza contro uno dei sodomiti, centrandolo in piena testa. Poi uscì allo scoperto brandendo un grosso bastone, convinto di potersela cavare da solo, ma il piagnucolio dell’uomo colpito attirò l’attenzione di una trentina di altri pervertiti che uscirono contemporaneamente dalle capanne. Percy guardò con compassione i suoi compagni, sillabò senza voce le parole “mi dispiace” e fuggì via, rincorso dal gruppo di uomini urlanti e visibilmente infuriati. Raggiunse la cima della collina e con l’agilità di una scimmia si arrampicò sul fusto di un albero, nascondendosi tra le fronde. I sodomiti giunsero alla base dell’albero ma erano disorientati e increduli davanti alla sua scomparsa.
Mentre attendeva che gli inseguitori se ne andassero, vide in lontananza un piccolo veliero battente bandiera inglese gettare l’ancora nella rada, in prossimità del punto dove si era svegliato. Da quella posizione riuscì anche a vedere i resti del Mayflower sparsi per un raggio di parecchi metri insieme a ciò che restava a galla del suo carico. Dopo qualche minuto, gli uomini se ne andarono e Percy scese lentamente dall’albero. Accertatosi dell’assenza di indigeni, individuò la strada più rapida per raggiungere la spiaggia e cominciò a correre. Fece solo un centinaio di metri quando si trovò la strada sbarrata dalla tribù dai lobi dentati. Tornò rapidamente sui suoi passi, intento a rifugiarsi sull’albero di prima ma ad attenderlo stavolta c’erano gli uomini con gli sguardi incazzati.
Percy si fermò, abbassò la testa rassegnata e si accasciò esausto sulle sue ginocchia. A un tratto sentì un gran chiasso provenire da tutte le direzioni. Alzò il capo e vide due uomini staccarsi ognuno dal rispettivo gruppo e incontrarsi a metà strada, a pochi metri da dove era inginocchiato. I due cominciarono a discutere animatamente, infervorati dalle rispettive fazioni ma nessuno sembrava cedere alle richieste del’altro. A tratti si rivolsero verso il giovane marinaio, primo l’uno poi l’altro e nella loro lingua incomprensibile portavano le mani al petto come per dirgli vieni con me! (così ti cucino) e l’altro, no vieni con me! (così ti impalo). La tensione era palpabile e i due gruppi sembravano sull’orlo di una guerra tribale. Percy era pronto a tentare di nuovo la fuga non appena i due si fossero distratti. Poi l’imprevedibile. Il pervertito fece un’ultima proposta e l’antropofago, dopo un attimo di riflessione, incurvò le labbra verso il basso e annuì.
Per fortuna avevano trovato un accordo.