VIA
CANELLES E L'OMICIDIO CAMARASSA
Via
Canelles, insieme a via La Marmora e via dei Genovesi, è una delle strade più
antiche della città di Cagliari. Si hanno sue notizie dal XIII secolo, quando
compare in un diploma della primiziale di Pisa con il nome di Ruga
Marinariorum, durante l'epoca spagnola prese il nome di Carrer del Cavallers,
denominazione che mantenne fino al XIX secolo, quando assunse il nome attuale
di Nicolò Canelles al fine di commemorare l'editore-imprenditore che nel 1566
impiantò proprio nella via dei Cavalieri la prima tipografia sarda e stampò
molti libri a sue spese; l'officina si trovava nel numero civico 69 dove è
presente un epigrafe commemorativa posta nel 1872 dai fratelli Nieddu, allora
proprietari della casa.
Nicolò
Canelles nel 1560 fu ordinato sacerdote e verso il 1570 frequentò la Biblioteca
Vaticana dove rinvenne dei manoscritti inediti che provvide a stampare a sue
spese. Questo gesto gli valse la benevolenza del papa Giulio III che lo segnalò
ai vescovi di Cagliari e di Oristano per la concessione di benefici e prebende;
fu infatti canonico della Cattedrale di Cagliari ed ebbe modo di conoscere
l'Arcivescovo Antonio Parragues di Castellejo.
Nel 1571
andò via da Cagliari e lasciò la tipografia in vendita temporanea ad uno dei
suoi procuratori, il Sembenino, che apportò migliorie all'officina con nuovi
attrezzi e locali più idonei; dopo un paio d'anni ad esso subentrò il tipografo
lionese Francesco Guarnerio.
Nel 1572
Nicolò Canelles fu commissario generale della diocesi di Cagliari e,
successivamente, vicario capitolare, titolo che rinnovò con il nuovo
arcivescovo nel 1574. L'8
aprile del 1578 fu consacrato vescovo di Bosa.
Dopo la
sua morte, avvenuta nel 1585, la tipografia aveva maturato moltissimi volumi ma
anche molti debiti e le attrezzature furono vendute all'asta nel 1589 a Giovanni Maria
Galeerino.
A un
secolo di distanza la via fu teatro di un evento sanguinoso dove è difficile
stabilire se furono determinanti gli elementi passionali o quelli politici.
Nel muro
adiacente al numero civico 32 è presente un'iscrizione spagnola datata 21
luglio 1668 recante una perenne nota di infamia nei confronti dei nobili che
uccisero Don Emanuele Gomez de los Cobos il
marchese di Camarassa, l'allora vicario regio del Regno:
para perpetua nota de infamia de que fueron
traydores del rey
Per perpetua nota di infamia del
fatto che furono traditori del re
nuestro señor don jaime artal de castelvì que
fue marques de cea
nostro signore, don Jaime Artal di
Castelvì, che fu marchese di Cea,
doña francisca cetrillas, que fue
marquesa de setefuentes
donna Francesca Zatrillas, che fu
marchesa di Sietefuentes,
don antonio brondo don silvestre
aymerich don francisco cao don
don Antonio Brondo, don Silvestro
Aymerich, don Francesco Cao, don
francisco portvgves y don gavino
grixoni como reos de crimen
Francesco Portugues e don Gavino
Grixoni, come rei del crimine
lesa magestad por homicidas del
marques de camarassa virrey de
di lesa maestà per l'omicidio del
marchese di Camarassa viceré di
cerdeña fveron condenados a mverte
perdida de bienes y de
Sardegna furono condannati a
morte, perdita di beni e di
honores demolidas svs casas
conservando en sv rvina eterna
onori, demolite le loro case,
conservando a propria rovina eterna
ignominia de sv nefanda memoria y
por ser en esto sitio la casa
ignominia della loro nefanda
memoria. E per essere questo sito la casa
de donde se cometio delicto tan
atroz a veynte y vno de jvlio
da dove si commise un delitto
tanto atroce il 21 di luglio
de mil seiscientos sesenta y ocho
se erigio este epitaphio
del 1668, fu eretto questo
epitaffio.
Prima di
narrare sinteticamente la vicenda inquadriamo brevemente i personaggi
principali coinvolti. Al fine di comprendere appieno le motivazioni che
indussero i cospiratori a uccidere il viceré è necessario fare un passo
indietro di un mese, per l'esattezza nella notte tra il 20 e il 21 giugno del
1668, quando nella Calle Mayor, l'attuale via La Marmora, fu ucciso ad
archibugiate e pugnalate il Marchese di Laconi don Agostino di Castelvì.
Quest'ultimo
oltre ad essere la prima voce dello stamento militare era anche un uomo molto
ricco e potente, egli capeggiava la fazione che rivendicava il diritto dei
nobili sardi di origine spagnola ad accedere alle più alte cariche del Regno,
compresa quella viceregia. L'attempato don Agostino era sposato con la
giovanissima nobildonna Francesca Zatril, la, marchesa di Sietefuentes, che
aveva la metà dei suoi anni (poco più che ventenne) che, come vedremo in
seguito, fu coinvolta nell'omicidio del vicerè in qualità di amante di uno dei
cospiratori.
La
pretesa rivendicativa dei nobili sardi non era ben accetta soprattutto da parte
della reggente di Spagna Anna d'Austria che, tramite il marchese di Camarassa,
faceva sentire la sua pesante autorità nel Regno di Sardegna. La situazione
degenerò quando verso la fine del 1664 la corona, tramite il vicerè, pretese dal
parlamento sardo un donativo di 70.000 ducati.
L'organo
di governo sardo in tutta risposta si dichiarò disponibile a dare il suo
contributo solo a condizione che gli antichi privilegi fossero rispettati e,
soprattutto, che i regnicoli potessero avere accesso a tutte le alte cariche
del Regno; una simile richiesta non poteva trovare accoglimento e si creò una
situazione di stallo che si protrasse per tutto il 1665 e il 1666.
Successivamente
vi furono due partenze verso la corte di Madrid, da un lato il vicerè mandò un
messo incaricato di illustrare la situazione in Sardegna e di ricevere
istruzioni sul da farsi, da un altro lato lo stamento militare, in accordo con
quello ecclesiastico e reale, decise di inviare il marchese di Laconi con il
compito di spiegare alla reggente le ragioni dei sardi.
La
missione di don Agostino non ebbe successo forse anche a causa dell'ostilità,
probabilmente collegata a personali ragioni di natura economica in territorio
sardo, dimostratagli da don Cristoforo Crespi di Valdaura al quale la reggente
scaricò il problema.
Mentre
don Agostino si trovava ancora fuori Sardegna, da Madrid giunse l'ordine al
vicerè di Camarassa, al quale fu riconfermato l'incarico per altri tre anni, di
riaprire il parlamento. Approfittando dell'assenza del marchese di Laconi,
venne chiamato a presiedere la seduta don Artaldo Alagon marchese di Villasor,
suo acerrimo rivale. Nel frattempo don Agostino rientrò a Cagliari e chiese una
sospensione dei lavori parlamentari per riferire l'esito della sua missione in
Spagna. Gli vennero concessi solo tre giorni, al termine dei quali, il 28
maggio del 1668, il vicerè chiuse il parlamento.
Dopo 23
giorni, come già detto, nella notte tra il 20 e il 21 giugno fu assassinato don
Agostino di Castelvì; l'opinione pubblica indicò subito quali artefici
dell'omicidio due personaggi legati alla famiglia del marchese di Camarassa,
don Gaspare Niño e don Antonio de Molina, che si rifugiarono nel palazzo
viceregio, da dove riuscirono a scappare alla volta della Sicilia.
Il fatto
che i due probabili assassini fossero intimi della famiglia viceregia e
trovarono rifugio palazzo di rappresentanza rafforzò la convinzione che il
mandante dell'omicidio fosse proprio il marchese di Camarassa.
Dopo un
mese, il 21 di luglio, il marchese di Camarassa, mentre passava per la via dei
Cavalieri (via Canelles) insieme alla moglie e un largo seguito di cavalieri e
guardie, fu colpito a morte da una salva di archibugi partita dalla casa di
Antioco Brondo (attuale numero civico 32).
Nonostante
il grande clamore e la paura dei tumulti, le funzioni di presidente del regno
vennero assunte, secondo la costituzione da don Bernardino di Cervellon con
grande equità e obiettività.
Durante
la breve istruttoria aperta dalla Reale Udienza sulla morte del marchese di
Laconi Francesca Zatrillas portò dei documenti atti a confermare la sua
convinzione della responsabilità del vicerè della morte del marito, poco dopo
però partì nel suo feudo di Cuglieri in compagnia di don Silvestro Aymerich;
questo fatto fece nascere il sospetto che tra i due vi fosse una relazione già
precedente alla morte di don Agostino e che avessero utilizzato l'espediente
della diatriba politica per liberarsi del peso coniugale che contrastava la
loro unione. Il fatto che nel mese di ottobre del 1668, dopo solo quattro mesi
di vedovanza, i due giovani si unirono in matrimonio aggravò la loro
condizione.
Il nuovo
vicerè don Francesco di Tuttavilla duca di San Germano, fu incaricato di
trovare i responsabili dell'omicidio del vicerè precedente.
I due
amanti furono ritenuti responsabili dell'uccisione di don Agostino di Castelvì
in un momento di forte tensione con il vicerè e quindi di aver indirettamente
provocato la sua morte determinata dall'immediata vendetta della fazione a lui
ostile.
Iniziò
così una feroce ricerca e cattura di coloro che furono ritenuti colpevoli del
delitto di lesa maestà. Il procedimento istruttorio si chiuse con la sentenza
del 18 giugno del 1669 nella quale furono condannati a morte Silvestro
Aymerich, don Artaldo di Castelvì marchese di Cea e don Antonio Brondo marchese
di Villacidro, ai quali furono inoltre confiscati i beni e demolite le
abitazioni.
La
cattura dei responsabili avvenne in tempi e modalità diverse, la più cruenta fu
quella del marchese di Cea tratto in catene dal nord Sardegna fino a Cagliari,
dove fu giustiziato.
Francesca
Zatrillas e don Silvestro, dopo essere stati condannati per l'omicidio di don
Agostino, tentarono la fuga, ma don Silvestro fu catturato e ucciso e
donna Francesca si ritirò in un convento dove trascorse il resto della sua vita.
Il processo fu sbrigativo e le indagini portate avanti con l'inganno e le minacce da parte del nuovo viceré, don Francesco di Tuttavilla duca di San Germano, che inoltre si avvalse della collaborazione di loschi individui.
Alla corona spagnola serviva assolutamente un capro espiatorio perché l'omicidio del marchese di Camarassa fu interpretato come un attacco all'autorità regia e molti innocenti probabilmente finirono sacrificati sull'altare della ragione di stato.
Fabrizio e Giovanna
Notizie tratte da:
F. C. Casula, Storia di Sardegna
L. Ortu, Storia della Sardegna
F. Loddo Canepa, La Sardegna dal 1478 al 1793, vol. I
Paolo de Magistris e Giancarlo Sorgia, Cagliari : la suggestione delle epigrafi