Le vite in disparte di Fernando León de Aranoa

Creato il 07 marzo 2011 da Abattoir

Fernando León de Aranoa è un regista e sceneggiatore spagnolo, nato a Madrid nel 1968, pluripremiato fin dagli esordi, prima alla Semana Internacional de Cine di Valladolid, poi con riconoscimenti al Festival del cinema di San Sebastiàn, e infine candidato e vincitore ai Premi Goya. Probabilmente non avrei appreso dell’esistenza di questo regista, se non mi fossi trovata per caso ad un cineforum organizzato da Radio-Aut e dal Laboratorio Zeta di Palermo, ciclo di incontri sul tema della precarietà, che tra gli altri titoli prevedeva anche la visione di uno dei film di de Aranoa, Los lunes al sol.

Los lunes al sol (I lunedì al sole), è un film del 2003, ambientato in una piccola cittadina galega, ai tempi della chiusura delle fabbriche. I protagonisti del film sono, per l’appunto, operai licenziati dopo durissime lotte sindacali, manifestazioni e proteste, diversi per carattere e situazione familiare, ma uniti da un’epoca che li ha lasciati sospesi in un limbo grigio di inattività.

Santa (Javier Bardem) è il centro della narrazione, forse per il suo carattere forte, duro e sfacciato, ma anche capace di sensibilità estrema, lucidità, affetto. E’ l’unico a non avere una famiglia a cui rendere conto, ma a ben guardare la sua famiglia sono i compagni. E’ lui che vede nella divisione tra gli operai la causa del fallimento delle proteste, e quando gli altri se la prendono con la competitività degli stranieri, con l’immigrazione, con gli amici stessi, è l’unico a vedere chiaramente che la causa della chiusura della fabbrica è la speculazione edilizia, è l’interesse capitalistico, la possibilità di tirare su più denaro, convertendo la produzione, senza curarsi dei licenziamenti, delle vite interrotte, delle famiglie lasciate sul lastrico. Attorno a Santa, poi, si muovono gli altri, tutti rigorosamente uomini, ex colleghi, amici. Qualcuno è riuscito a non soccombere alla crisi, investendo i pochi risparmi nell’apertura di un bar senza pretese, e gli altri, un po’ per amicizia, un po’ per abitudine, passano gran parte delle loro esistenze dentro quel bar, a confrontarsi la sfortuna, a guardarsi negli altrui occhi, come specchi ogni giorno più grigi, a litigare, ad accusarsi, a perdonarsi e volersi bene come fratelli, e soprattutto a bere: “dammene un altro” è una frase ritornello, detta davanti ad una collezione di bicchierini pieni di liquidi che assopiscono i dispiaceri, fino a quando il dispiacere non diventa troppo grande, e l’epilogo si fa tragico.

Ma non pensate che Los lunes al sol sia un film triste. E’ un film emozionante, commovente, e reale, pieno di umanità e sentimenti, dai più neri ai più puliti. C’è anche l’amore, lì dentro, per donne che mantengono i mariti, magre e piene di stanchezza, ma forti. C’è la debolezza di questi uomini per cui i giorni sono tutti uguali, e nell’attesa che qualcosa accada, il sole è caldo, e alla domanda “Che giorno è oggi?” si risponde “Lunedì”, ma potrebbe essere domenica. E c’è la loro forza data dalla coesione, dall’amicizia, dalla condivisione di un destino comune, che è il destino di tutti gli uomini (e le donne) in disparte, tutti sulla stessa barca, quella con la quale si allontanano dal porto nella scena finale.

Se nei Lunedì al sole i protagonisti erano esclusivamente uomini, in Princesas (2005) il punto di vista privilegiato è quello femminile, e sullo schermo si snodano le vicende esistenziali di due donne, Caye e Zulema. La prima è una trentenne spagnola che, per mantenersi e racimolare i soldi per un’operazione al seno, si prostituisce. La sua vita si intreccia per caso a quella di Zulema, una immigrata clandestina domenicana, che si prostituisce per guadagnare i soldi necessari a far arrivare in Spagna anche il suo figlioletto. Zulema è vittima di un uomo che le usa violenza, e la tiene sotto scacco con la promessa/minaccia di procurarle i documenti necessari per rimanere, o denunciarla alle autorità qualora non si sottometta al suo volere. Ed è in uno di questi episodi di violenza – mai mostrati nel loro svolgersi, ma sempre come un risultato, come se nell’impatto la coscienza si annullasse, si rifiutasse di guardare in faccia un uomo che picchia – è proprio in una di queste circostanze che Caye arriva per caso nella casa di Zulema, e le presta soccorso. Si incontrano così due mondi apparentemente lontani, quello delle prostitute immigrate di strada (Zulema sta in strada) e quello di Caye, che è una call girl, e nel tempo libero con le amiche e colleghe guarda con disprezzo la concorrenza straniera muoversi in una piazzetta fuori dalla vetrina di una parrucchiera. Anche qui ci si accusa a vicenda della mancanza di lavoro, si trova il capro espiatorio più debole, il nuovo arrivato che ruba le possibilità a chi le dovrebbe avere di diritto. Anche qui la lotta è per la sopravvivenza, per non soccombere all’ennesima sfuriata di uno sconosciuto, alla forza bruta che si impone sul corpo femminile, in forme che vanno dallo sfruttamento alla violenza fisica, passando per umiliazioni di ogni genere.

Detto così, potrebbe sembrare che nel mondo di Princesas non ci sia un barlume di speranza, una prospettiva, un sentimento pulito, ma non è così. Esistono sentimenti altissimi, nobili, e inattaccabili, e ce li insegnano due donne che stanno ai gradini più bassi della scala sociale. L’amore, in primo luogo, che ha i gesti goffi di chi scopre il proprio corpo con timidezza, con imbarazzo virginale, nonostante quel corpo abbia subito qualunque tipo di maltrattamento. L’amore, ancora, che tenta di superare l’orrore di una vita venduta. L’amore, come gesto di altruismo totalmente gratuito, che si fa nei confronti di un nome qualsiasi, rinunciando al proprio progetto, perché ci sono cose più importanti.

Il terzo film di questa mia trilogia immaginaria è Amador, recentissimo, presentato all’ultimo festival di Berlino, e ancora una volta incentrato sulle vite marginali di personaggi molto umili, ma che nelle loro esistenze rivelano il vero senso della vita, dell’essere qui, sotto lo stesso sole, tutti.

Marcela è una donna peruviana, che vive col suo compagno, Nelson, un venditore di fiori ambulante, sordo alle richieste di attenzioni della donna, e perennemente assente. La ragazza, che all’inizio della storia scopre di essere incinta, ma lo nasconde a tutti, trova lavoro come badante presso Amador, un uomo anziano costretto a letto dall’età e da malattie senili di vario genere, ognuna corrispondente ad una diversa pasticca da assumere ad orari diversi. Inizia così un rapporto di amicizia discreto, costellato di brevi dialoghi, che ci lasciano intuire due storie, quella di Amador, e quella di Marcela, diverse, ma tangenti nei punti fondamentali: l’amore, la vita, e la morte.

Ancora una volta de Aranoa ci parla dei significati più profondi dell’esistenza, a partire da dettagli marginali, da vissuti banali, dagli occhi di due persone che vivono in disparte: un’immigrata, che porta in grembo un bambino di cui nessuno sa niente, e un vecchio, che sembra dimenticato dal mondo, se non fosse per una fitta corrispondenza misteriosa, della quale sapremo qualcosa soltanto nella seconda metà del film. Con una delicatezza estrema, quindi, il regista ci porta dentro la vita di queste due persone, e dentro il senso dei legami, e ci spiega perché la morte non è la fine della vita, e alcune persone rimangono, anche dopo.

L’abilità più grande di quest’uomo è, a mio parere, quella di riuscire a raccontare storie che non avrebbero altrimenti voce, che non si perdono in un coro di umili, in una generalizzazione retorica dalla lacrima facile. Sono storie di personaggi al margine, in disparte, che nel loro raccontarsi e vivere assumono la dignità di un’esistenza che comunque è centrale, pregna di significati che a ben guardare sono universali, e che vogliono dirci che vivere è questo: trovare un Altro nel mondo, e a quest’Altro regalare un pezzo della nostra esistenza, gratuitamente.


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