Fernando León de Aranoa è un regista e sceneggiatore spagnolo, nato a Madrid nel 1968, pluripremiato fin dagli esordi, prima alla Semana Internacional de Cine di Valladolid, poi con riconoscimenti al Festival del cinema di San Sebastiàn, e infine candidato e vincitore ai Premi Goya. Probabilmente non avrei appreso dell’esistenza di questo regista, se non mi fossi trovata per caso ad un cineforum organizzato da Radio-Aut e dal Laboratorio Zeta di Palermo, ciclo di incontri sul tema della precarietà, che tra gli altri titoli prevedeva anche la visione di uno dei film di de Aranoa, Los lunes al sol.
Santa (Javier Bardem) è il centro della narrazione, forse per il suo carattere forte, duro e sfacciato, ma anche capace di sensibilità estrema, lucidità, affetto. E’ l’unico a non avere una famiglia a cui rendere conto, ma a ben guardare la sua famiglia sono i compagni. E’ lui che vede nella divisione tra gli operai la causa del fallimento delle proteste, e quando gli altri se la prendono con la competitività degli stranieri, con l’immigrazione, con gli amici stessi, è l’unico a vedere chiaramente che la causa della chiusura della fabbrica è la speculazione edilizia, è l’interesse capitalistico, la possibilità di tirare su più denaro, convertendo la produzione, senza curarsi dei licenziamenti, delle vite interrotte, delle famiglie lasciate sul lastrico. Attorno a Santa, poi, si muovono gli altri, tutti rigorosamente uomini, ex colleghi, amici. Qualcuno è riuscito a non soccombere alla crisi, investendo i pochi risparmi nell’apertura di un bar senza pretese, e gli altri, un po’ per amicizia, un po’ per abitudine, passano gran parte delle loro esistenze dentro quel bar, a confrontarsi la sfortuna, a guardarsi negli altrui occhi, come specchi ogni giorno più grigi, a litigare, ad accusarsi, a perdonarsi e volersi bene come fratelli, e soprattutto a bere: “dammene un altro” è una frase ritornello, detta davanti ad una collezione di bicchierini pieni di liquidi che assopiscono i dispiaceri, fino a quando il dispiacere non diventa troppo grande, e l’epilogo si fa tragico.
Ma non pensate che Los lunes al sol sia un film triste. E’ un film emozionante, commovente, e reale, pieno di umanità e sentimenti, dai più neri ai più puliti. C’è anche l’amore, lì dentro, per donne che mantengono i mariti, magre e piene di stanchezza, ma forti. C’è la debolezza di questi uomini per cui i giorni sono tutti uguali, e nell’attesa che qualcosa accada, il sole è caldo, e alla domanda “Che giorno è oggi?” si risponde “Lunedì”, ma potrebbe essere domenica. E c’è la loro forza data dalla coesione, dall’amicizia, dalla condivisione di un destino comune, che è il destino di tutti gli uomini (e le donne) in disparte, tutti sulla stessa barca, quella con la quale si allontanano dal porto nella scena finale.
Detto così, potrebbe sembrare che nel mondo di Princesas non ci sia un barlume di speranza, una prospettiva, un sentimento pulito, ma non è così. Esistono sentimenti altissimi, nobili, e inattaccabili, e ce li insegnano due donne che stanno ai gradini più bassi della scala sociale. L’amore, in primo luogo, che ha i gesti goffi di chi scopre il proprio corpo con timidezza, con imbarazzo virginale, nonostante quel corpo abbia subito qualunque tipo di maltrattamento. L’amore, ancora, che tenta di superare l’orrore di una vita venduta. L’amore, come gesto di altruismo totalmente gratuito, che si fa nei confronti di un nome qualsiasi, rinunciando al proprio progetto, perché ci sono cose più importanti.
Il terzo film di questa mia trilogia immaginaria è Amador, recentissimo, presentato all’ultimo festival di Berlino, e ancora una volta incentrato sulle vite marginali di personaggi molto umili, ma che nelle loro esistenze rivelano il vero senso della vita, dell’essere qui, sotto lo stesso sole, tutti.
Marcela è una donna peruviana, che vive col suo compagno, Nelson, un venditore di fiori ambulante, sordo alle richieste di attenzioni della donna, e perennemente assente. La ragazza, che all’inizio della storia scopre di essere incinta, ma lo nasconde a tutti, trova lavoro come badante presso Amador, un uomo anziano costretto a letto dall’età e da malattie senili di vario genere, ognuna corrispondente ad una diversa pasticca da assumere ad orari diversi. Inizia così un rapporto di amicizia discreto, costellato di brevi dialoghi, che ci lasciano intuire due storie, quella di Amador, e quella di Marcela, diverse, ma tangenti nei punti fondamentali: l’amore, la vita, e la morte.
L’abilità più grande di quest’uomo è, a mio parere, quella di riuscire a raccontare storie che non avrebbero altrimenti voce, che non si perdono in un coro di umili, in una generalizzazione retorica dalla lacrima facile. Sono storie di personaggi al margine, in disparte, che nel loro raccontarsi e vivere assumono la dignità di un’esistenza che comunque è centrale, pregna di significati che a ben guardare sono universali, e che vogliono dirci che vivere è questo: trovare un Altro nel mondo, e a quest’Altro regalare un pezzo della nostra esistenza, gratuitamente.