Una trasposizione che il grande Maestro della nostra letteratura volge a profitto con un’operazione chirurgica tesa a fotografare le caratterizzazioni tipiche dei comportamenti individuali rispetto ad eventi della vita comune, tali da suscitare nello spettatore una deduzione logica del tutto spontanea rispetto alla propria (o indiretta) esperienza.
Spesso ci serviamo delle fotografie per ricordare momenti più o meno indimenticabili del nostro passato, quasi a volerli immortalare per evitare vuoti di memoria. Nell'opera di Eduardo, come in tutte le sue commedie, è la vita stessa che si eleva a ricordo e a rappresentazione visiva di ciò che siamo senza che lo scorrere del tempo possa mai cancellare.
La commedia, scritta nel 1948, e riproposta in diverse rappresentazioni teatrali e televisive (di cui si ricorda la messa in onda del 1978 con una magistrale Pupella Maggio fra gli interpreti), è un ritratto fedele della nostra coscienza nella sua massima rappresentazione simbolica rispetto ad eventi più o meno accaduti. E poco importa se il protagonista Alberto Saporito abbia creduto nel sogno che un certo delitto sia stato commesso dai vicini di casa. Qui sono i comportamenti interiori ad essere reali ed inconfutabili, a dispetto delle prove giudiziarie che l’intervento della magistratura dimostrerà essere del tutto inconsistenti.
Si può essere assassini senza aver commesso delitto alcuno, perché nelle voci di dentro è il simbolismo ad agire e a far tirare fuori dai protagonisti della storia la loro vera indole. Ne è una riprova l’atteggiamento dei vicini che vedendosi accusati di aver ucciso Aniello Amitrano, amico di Saporito, faranno di tutto per scagionarsi accusandosi a vicenda, progettando persino l’assassinio dello stesso protagonista pur di liberarsi dell’onta di un omicidio mai (realmente) commesso.
Pregevole il j’accuse di Saporito nel finale della commedia:
“Mo' volete sapere perché siete assassini? E che v' 'o dico a ffa'? Che parlo a ffa'? Chisto, mo', è 'o fatto 'e zi' Nicola... Parlo inutilmente? In mezzo a voi, forse, ci sono anch'io, e non me ne rendo conto. Avete sospettato l'uno dell'altro: 'o marito d' 'a mugliera, 'a mugliera d' 'o marito... 'a zia d' 'o nipote... 'a sora d' 'o frate... Io vi ho accusati e non vi siete ribellati, eppure eravate innocenti tutti quanti... Lo avete creduto possibile. Un assassinio lo avete messo nelle cose normali di tutti i giorni... il delitto lo avete messo nel bilancio di famiglia! La stima, don Pasqua', la stima reciproca che ci mette a posto con la nostra coscienza, che ci appacia con noi stessi, l'abbiamo uccisa... E vi sembra un assassinio da niente? Senza la stima si può arrivare al delitto. E ci stavamo arrivando ..”
E’ la perdita della stima il vero delitto commesso. Una componente della vita interiore che nessun ordinamento giuridico considera ma che ne “Le voci di dentro” assurge a macchia indelebile della nostra coscienza, come una delle più tangibili e implacabili condanne.
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