Le voci di Zagreb.

Da Arturo Robertazzi - @artnite @ArtNite
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Negli anni della stesura di Zagreb (ora che li conto sembrano tantissimi) ho incontrato molte persone che le guerre le hanno vissute da vicino. Ho imparato che bisogna essere delicati, ché la prima reazione alle mie insistenze è semprestata una gelida ostilità: la guerra è un’eredità pesante che si preferisce nascondere nell’angolo buio di una cantina. Ho anche imparato che dopo i primi gelidi minuti, l’interlocutore riscopre il desiderio, forse inaspettato, di condividere.

Dei racconti che ho ascoltato, mi rimangono tante parole, incastonate nelle maglie dei mie studi, come diamanti neri.

“Ero a Zagabria, al sicuro. In quel periodo ho capito esattamente cosa volesse dire ‘violazione dei diritti umani’. Ho scoperto che noi stavamo facendo del male”, mi dice E., una trentenne croata.

Qualche tempo prima, incontro in treno S., una ragazza serba della provincia autonoma della Vojvodina. Alla scoperta che io ho scritto un romanzo sulle guerre in Jugoslavia, S. replica indispettita: “Ricordare?! Perché? Noi abbiamo bisogno di dimenticare!”. Ne parliamo, ne discutiamo. Poi, al momento di salutarci, S. mi dice: “Il mio popolo non è un popolo sanguinario. Qualcuno ha voluto la guerra… e poi la situazione gli è scappata di mano”.

Estate, ancora a Berlino, in un bar a Graefestraße, chiedo a C., osservatore internazionale in Bosnia e Kosovo, qual è l’episodio che più l’ha colpita.

Risponde così: ”Quando abitavo a Višegrad, incontrai un ragazzo serbo. Mi raccontò che prima della guerra aveva una ragazza musulmana… La sera del compleanno di lei ci fu una festa. Amici, musica, ‘buon compleanno’. Quel giorno le cose cambiarono. Al mattino, la madre lo svegliò dicendo ‘è arrivata la guerra’. Avrebbe voluto contattare la sua ragazza, ma i serbi avevano già cominciato a massacrare i musulmani. E lei aveva paura. La sua famiglia aveva paura di cosa i suoi avrebbero potuto fare. Da allora i due non si sono mai più visti, né sentiti.”

Davanti ai nostri caffè, C. e io respiriamo a lungo, senza parlare. Poi C. conclude, dicendo: “Quelle sono sono città fantasma, perché sono fantasmi i loro abitanti”.

I romanzi, i saggi, i documentari sono stati fondamentali per avvicinarmi alle vicende che hanno travolto i Balcani Occidentali negli anni ’90. Sono pagine e immagini che scuotono. Ma un paio di occhi che guardano giù, una voce che trema, un viso irrigidito da un’espressione tesa possono scaraventarti dentro.

E ti sembra di soffocare.

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