Una volta i leader avevano vita lunga. Occupavano la scena, a destra, sinistra e centro quasi sempre per la durata della loro vita. Si contendevano uno spazio, un passettino avanti, uno indietro, un altro avanti. Perdevano la segreteria del partito e acquisivano la premiership di governo oppure diventavano capicorrente. Se uscivano di scena, questo avveniva morbidamente. De Gasperi, Togliatti, Nenni, Andreotti, Malagodi, La Malfa. Una volta. Erano sintesi stabili degli orientamenti. Ora elenco: Fini, Bossi, Di Pietro, Ingroia, Monti. Di quale malattia si sono ammalati? Scomparso Fini. Una drammatica evoluzione, da Fiuggi al ripudio drastico del fascismo, al “che fai mi cacci?” rivolto impavidamente al padrone d’Italia in una platea servile e ostile. Futuro e libertà fra musica, canti e oratoria del bravo Barbareschi (che poi avvedutamente cambia idea). Apertura ai gay, agli immigrati. Dimenticato il ruolo opaco nei massacri di Genova 2001. Vezzeggiato dalla sinistra. Poi la casa a Montecarlo, l’alleanza con Monti. E la fine. Bossi, grande aggregatore dello scontento del nord. Operai, artigiani, piccoli imprenditori tutti insieme contro il capro espiatorio del Sud e dell’immigrato perché c’è sempre oggi nel leader innanzitutto l’esigenza che sia definito il nemico. Assai meno i risultati attesi dalla sua leadership. Peraltro nella seconda Repubblica la costituzione materiale dice che tutto è permesso se il popolo (una frazione compatta di popolo) lo vuole. Si possono minacciare sollevamenti, fucilate e cannoneggiamenti, come il buon Bossi ha fatto. Chi si azzarderà a minacciare processi? La viltà, non il coraggio, suggerisce che l’avversario sia battuto politicamente, non nei tribunali. L’alibi per l’impotenza. E poiché l’avversario trionfa in una partita a carte truccate, il suggerimento implicito è di subire o di accettare una corsa ad handicap in cui è impossibile vincere. Ma i leader si sconfiggono da se stessi. Ad esempio col il consueto voler troppo. Sistemare, ad esempio, moglie e figli secondo l’odiato costume sudista. Indifendibile. E la fine. Di Pietro, protagonista assoluto di Mani pulite, inquisitore di Craxi. Poi politico rozzamente efficace. Vero antagonista assoluto del padrone d’Italia cui non ha mai concesso sconti. Foto di Vasto, da vincitore. Poi ancora Report, Gabanelli con storie di case e conti confusi fra partito e famiglia. E la fine. Ingroia, idolo del popolo viola e dei militanti della legalità. Incarico in Guatemala. Ritorno in Italia come leader di Rivoluzione civica. Flop. Ridicolizzato da Crozza che non perdona. L’indolenza dolente e la sconfitta. E la fine. Monti, salvatore della patria. Novello Cincinnato lascia l’università, chiamato da Napolitano. E’ scontato: sarà Presidente della Repubblica se ascolta i consigli di Napolitano. Ma non li ascolta. Un disastro elettorale. E la fine. Credo che oggi, più di prima, un leader nasca un po’ per caso. Un mix di talento e di caso. Fra cento o mille leader potenziali ed equivalenti il caso decide. Era nelle cose, possibile ma non fatale, che l’Italia avversa alle regole trovasse un suo leader contro la “gioiosa macchina di guerra” di Occhetto. L’oscuro imprenditore di Arcore prima aveva trovato, con l’aiuto di consulenti e stallieri le risorse economiche, poi per caso incontrò Craxi e il decreto che gli consegnò il potere smisurato di proporre la nuova pedagogia televisiva e di conquistare il cuore di massaie e pensionati, enorme esercito inconsapevolmente al servizio di elusori, trafficanti, frequentatori dei riti del Billionarie. Quindi il pupazzo di neve fu completato col cappello degli intellettuali “eccedenti” nella sinistra che invece nella nuova destra trovarono spazi e retribuzioni impensati. Una forza economica capace di comprare qualsiasi cosa: giovinezza, bellezza, parlamentari. Una valanga nata da un fiocco di neve. Non è diversa la genesi della leadership dell’oppositore di Berlusconi, oppositore di tutto, Beppe Grillo. Certamente irriducibilmente diversi i valori e gli obiettivi. Non diverso il ruolo del caso e, per altri versi, della TV, inventore di leader. Non dal nulla, anche qui, ma privilegiando uno fra cento o fra mille. Un comico di ottima cultura e di buone letture che casualmente incontra un praticone del web e, nella distrazione generale, forse a sua stessa insaputa, occupa uno spazio deserto da cui arringa i piccoli imprenditori delusi, i precari sovra-istruiti, il popolo avverso alle caste. Qui la narrazione vincente è giocata sull’assenza/presenza. Mai presente nei talk show della TV sdegnata, sempre presente e garante di share per la TV che cerca personaggi. Infine l’attraversamento dello stretto vale dieci volte un’apparizione di Berlusconi a rete unificate. Così due Italie hanno trovato i loro campioni. La terza Italia, quella che non amava gli uomini soli al comando è vinta e persuasa. Sarà leader anche qui chi trova un bersaglio attraente e mobilitante. Renzi lo trova nell’apparato del partito. Per la prima volta nella storia del Pci- Ds- Pds- Pd o in quella Dc, Ppi, Margherita, Pd, si può dire “loro”, “voi”, alludendo agli avversari dentro il partito. Anzi si deve dire per vincere. I democratici ora sanno l’essenziale: contro chi sta. Sta contro l’apparato. Il fronte avversario si sfalda. Paradossalmente i rottamati, quelli che lui ha rottamato, passano dalla sua parte. Prima Veltroni e seguito. Poi anche l’ultimo esponente della vecchia Italia e del vecchio PD politicante, Massimo D’Alema, si arrende: sia Renzi il leader. Ah, dimenticavo, vengo anch’io: sia Renzi il leader.
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