Legge Gelmini e numero di docenti

Creato il 02 aprile 2015 da Fisiciaroundtheworld

Vi riporto parte di una lunga discussione  di Giovanni Bachelet nata dall’articolo di Piero Graglia sul corriere: “Università: la programmazione in mano ai docenti a contratto?“.

Con la legge Gelmini, oltre a irrigidire il numero minimo di studenti necessario a tenere in vita un corso di laurea, sono state anche irrigidite le regole per il suo “accreditamento” (=numero minimo di docenti per istituire, o mantenere in vita, un certo corso di laurea). Scopo dichiarato (e in alcuni casi condivisibile): uccidere corsi di laurea fantasma istituiti da docenti delinquenti. In pratica, con queste regole: che centinaia di studenti si iscrivano a un corso di laurea in, diciamo, Cavolologia, non basta a tenerlo in piedi. Occorre anche che, se quella laurea prevede un certo numero di corsi affini (Matematica, Fisica, Chimica) e un certo numero di corsi caratterizzanti (Introduzione ai Cavoli Amari, Cavolologia Teorica, Laboratorio di Cavolo e Tutt’Uno, eccetera), entrambi i gruppi di corsi siano tenuti in una certa percentuale, piuttosto alta, da docenti permanenti titolari di quegli insegnamenti; i.e., NON da docenti a contratto. Regola stupida, regola giusta? Comunque è questa la regola stabilita dalla legge Gelmini e i suoi decreti attuativi.
La legge Gelmini però entra in vigore mentre è in corso di svolgimento la finanziaria triennale 2008-2010 di Tremonti, che (per finanziare l’abolizione dell’ICI e la non-vendita dell’Alitalia a Air France) riduce fin dal 2008 il finanziamento dell’università italiana da 7 miliardi di euro l’anno a 5.6 miliardi di euro l’anno, cioè del 20%: un taglio che in percentuale è mostruoso e non ha pari con altri settori (la scuola che pure ha subito un forte dimagrimento è stata ad esempio tagliata del 7%, da 43 a 40 miliardi di euro l’anno). E oltre al taglio del finanziamento prevede per tre anni un blocco del turnover al 20%, cioè si assume un nuovo professore universitario ogni 5 che vanno in pensione.
Ovvero anche un’università che per ipotesi avesse i conti talmente in ordine da non essere danneggiata troppo dal taglio finanziario non può, comunque, assumere più di un nuovo professore ogni cinque pensionati.
Il risultato ovvio del blocco del turnover è che il numero di professori universitari comincia a decrescere esponenzialmente: i vecchi si pensionano ma non si assumono nuovi giovani se non in misura di uno a cinque. Graglia sottolinea giustamente che i successori della Gelmini da questo punto di vista hanno fatto ancora peggio: infatti Monti e Profumo, in un momento di pazzia, hanno reso il blocco del turnover PERMANENTE. Mentre Tremonti l’aveva previsto per tre anni (che hanno comunque ridotto i permanenti da 62mila a 50mila, a Fisica alla Sapienza quando sono tornato eravamo due terzi di quando sono andato via), Monti decide che l’università pubblica deve chiudere: infatti per t che tende a infinito (e mi rivolgo qui a chi sa la matematica) la funzione esponenziale tende a zero. Ovvero se ogni anno si assume solo 1/5 di quelli che vanno in pensione, dopo un paio di decenni non ci sono piú professori universitari con posto permanente.
Risultato? Ogni anno il numero di docenti permanenti scende, e quelli che restano sono (per ovvie ragioni) sempre più vecchi.
A questo punto, not surprisingly, i nodi vengono al pettine: le regole di accreditamento, se mantenute, comincerebbero a provocare una falcidie di corsi di laurea. Forse è stata una scemenza della Gelmini criminalizzare i professori universitari: forse certi corsi di laurea fortemente dipendenti da professori a contratto non erano un imbroglio. O forse la Gelmini aveva ragione, ma allora non si doveva ridurre esponenzialmente il numero di docenti permanenti. Una delle due cose non fa scopa con l’altra.
Ma la funzione esponenziale non perdona. Fra qualche altro anno, quando il numero di permanenti sarà ancora minore, si riproporrà il problema  …..
Intanto l’università muore. Evidentemente, insieme alla scuola, università e ricerca NON sono una priorità per Renzi, altrimenti non ci avrebbe messo un ministro di un partitino dell’8 per cento crollato poi sotto l’1%, bensí un ministro politicamente e culturalmente forte. Speriamo che questo pezzo di Italia che ancora è capace di formare persone che all’estero competono e vincono (visto che in Italia per persone di livello accademico non ci sono assunzioni né nel pubblico né nel privato) tenga duro fino al prossimo ministro normale.

Giovanni Bachelet



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