Leggere (e far di conto)

Creato il 02 gennaio 2012 da Spaceoddity

[Schizzi] Un tempo si diceva: leggere e far di conto. Era acquisire quelle abilità elementari, utili a sbrigare faccende in un mondo borghese in cui ci si dava da fare per vivere e la contabilità era il valore stesso dell'istruzione. Ci si affrancava dalla dipendenza e dai lavori manuali quale mezzo di sussistenza, sia per produrre i beni di prima necessità, sia per ottenerli tramite forme più o meno raffinate di baratto.
Va' a togliere dalla testa certe idee, adesso. L'analfabetismo di ritorno sembra riguardare una porzione minima di persone e conferma nello stesso tempo l'inutilità dell'istruzione, perché poi le cose che contano sono altre. Si disimpara a leggere, se non per messaggi pubblicitari. Ma lo spazio ridotto della reclame porta a disimparare tutto ciò che non può stare in una comunicazione che deve arrivare a tutti.
Si impara ciò che può arrivare a tutti: in uno sciatto accoppiamento tra anarchia e conformismo, l'alterità è la forma più diffusa di stoccaggio di massa. Il lessico si riduce, perché lo si impara strumentalmente, si impara ciò che serve adesso, riservando la novità a una memoria di breve durata che non si sedimenta nell'anima e nell'esperienza, che deve sparire quanto prima possibile.
La calcolatrice sembrava sopperire all'esigenza del far di conto. Diceva: è importante, fondamentale ottenere dei risultati, ma non è necessario che ti perda in astruse tassonomie (le tabelline e roba simile), basta un libretto di istruzioni ed ecco che i segni matematici si rivelano funzioni che trasformano i numeri. In fin dei conti, nessun pensa a cosa significhi Shift su una tastiera, si pensa al comando che esegue un tasto.
Ci allontaniamo sempre più dalla logica e dalla manualità, come in un'epoca di magia (e, a leggerlo, il vecchio Miti d'oggi di Roland Barthes ci dice molto in proposito, dovrò riprenderlo). Si può far funzionare un impianto con diversi gradi di consapevolezza dello strumento e del mondo. Difendiamo il progresso, diciamo di crederci, dimenticando un particolare: il mondo su cui esercitiamo questo intervento. E a volte dimenticando pure che il progresso è uno sviluppo dell'intervento sul mondo.
Non è facile tenerne conto. Il passaggio dalla meccanica all'elettronica è stato determinante per delegare i rapporti di causa ed effetto dalla semplice osservazione alla cura di esoterici esperti. Già gli strumenti meccanici più complessi richiedevano esperti (penso al "meccanico" dell'automobile, figura per altro distinta dall'elettrauto, oltre che dal carrozziere), eppure i singoli passaggi avevano una logica a loro modo universale. Era una logica di spinte, di attriti, di contatto, di realtà delle cose.
Era un mondo da toccare e il mondo era quello che toccavi. In pieno positivismo c'è stato bisogno di indagini molecolari e atomiche per identificare processi simili anche nella sfera dell'invisibile (la natura corpuscolare della luce e via dicendo). E parallelamente si codificarono sul piano scientifico forze diverse nel campo dell'inattingibile e nella vita di tutti i giorni. La vita non è tutta da toccare. Facciamocene una ragione.
E intanto il fantasy è andato trovando le sue vie in questo mondo industriale e produttivo. Lungi dall'esserne un contraltare, salvo nelle manifestazioni più elevate e mistiche, la magia di questa letteratura è la quintessenza di un meccanicismo: ad un'azione corrisponde un risultato. Con uno sguardo all'esistenza degli esperti: questo nesso non è a disposizione di tutti. Bisogna essere iniziati oppure esperti (con allegra confusione delle sfumature), con tutte le distinzioni del proprio credo.
E sempre nella stessa era, dall'originalità romantica di un mondo che doveva essere ingenuo e ancestrale, fino a quella fine Ottocento, che invece cercava le origini del visibile, con un'ineguagliata tensione mitopoietica del reale, nasce anche il romanzo di formazione: storia di un ragazzo che diventa uomo, attraverso prove e reagenti. Quali sono le forze che fanno di un uomo quello che è? Come si arriva dal suo essere originario al modo in cui lo conosciamo alla fine del romanzo, quando lo conosciamo noi?
Il romanzo di formazione parte da una condivisione di conoscenze tra l'autore e la comunità a cui si rivolge. Presenta per forze di cose un uomo verosimile e giunge fino al momento in cui non si può sapere più niente, perché tutto il resto è futuro, e sul futuro si ragiona con ben altre doti o strumenti. Sta alla sensibilità del singolo autore di selezionare le forze e i compagni, altri uomini già fatti, in questo viaggio del protagonista verso l'uomo che sarà.
Il romanzo di formazione rischia di essere proprio il contrario, una galleria di domande su come si può diventare come chi si ha accanto. Una storia di striature e di assenze di passato, di specchi deformanti. C'è la storia col suo incombere, e c'è soprattutto il progresso, perché un romanzo di formazione non può esistere senza la coesistenza di un mondo che cambia, ma c'è anche un momento - la fine del romanzo - in cui il cambiamento sembra diventare ininfluente per il protagonista.
Quali sono queste forze che smettono di agire su una persona? A me interessano proprio a questo punto. A me interessano proprio quando l'uomo sembra refrattario al loro agire, mentre le nuove generazioni vi sono ancora più esposte. Il mondo della magia è un mondo parallelo, il mondo del romanzo di formazione è un campo magnetico a cui ci si impermeabilizza per età o forse perché se ne è esperti o solo saturi. Ma di cosa, esattamente? Cosa importa quando più niente importa? Cosa influisce, quando niente sembra riuscirci più? E come influisce?
Ciò rimanda al romanzo di formazione nel suo svolgersi: quali erano e in che modo agivano queste forze, finché erano effettivamente forze? Vale a dire, finché il protagonista era passivo e permeabile di fronte al loro agire. Come funziona un romanzo di formazione? (E non c'è un meccanicismo piccino in questa domanda?!) Chi devo chiamare per indagarlo? L'elettricista, il meccanico o il carrozziere (penso a Lombroso)? Ovvero, di che strumenti devo munirmi per indagare io stesso?
Parlavo di forze, dunque. E ne ho perso il controllo: è per questo che siamo deboli, sembrano dirci certi romanzi fantasy e alcune discipline orientali (non so quanto autentiche): non per assenza di energia, ma per mancanza di presa sulla stessa. Intervengo sulla realtà e la realtà interviene su di me con una fluidità che confonde l'una e l'altra azione. (Sarà questa una delle chiavi di Minority Report e del curioso meccanismo informatico in cui le immagini slittano dalla vista e dalla coscienza nel farsi reali?)
Il senso dell'uomo e il senso delle cose stanno nella mente di chi riesce a configurarli, non ho dubbi sul fatto che l'uomo e le cose cambino in funzione di come li si vede (A.I. di Spielberg è un meraviglioso paradigma di questa teoria). La prospettiva estetica che ne deriva - fruizione del mondo e sua metamorfosi conseguenziale - allontana però ulteriormente l'uomo dalle sue forze e dai suoi effetti.
Simuliamo pure di girare le pagine su un dispositivo elettronico, le pagine di un libro, dico: la materialità stessa del libro viene perduta con azioni insensate, perché lo sfogliare non ha ragion d'essere in uno strumento che funziona più ragionevolmente come un rotolo che scorre su chissà quali perni elettronici. Chiediamoci pure che senso abbia fruire di un libro che sia un libro in un mondo che è per sua natura multimediale, cioè un mondo in cui la natura autosufficiente di un testo viene disattesa per principio.
Un mondo in cui, oltre al testo, c'è di più, di diverso dal testo e alternativo, e quel di più è quel che si può - permessi, drm, connettività - secondo le più recenti tecnologie; o quel di più è uno slittare continuo tra autorialità a confronto, dall'autore al fruitore e viceversa in un'estetica della ricezione che vede modificare in modo esponenziale il proprio campo d'intervento. A queste condizioni, il testo come lo conosciamo noi non basterà mai e rischia di non essere più il libro.
Ma d'altra parte un'opera non è un libro e credo che la nuova letteratura debba partire dallo stato magmatico e quasi orale che la caratterizza, senza ridursi a sciatterie volgari e bieche. Con la consapevolezza, però, che la letteratura è proprio un potere sulla forma e sulla vita, non solo una vittima del suo destino infausto, ohibò.