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Domenica 13 novembre 2011
Se le prime ottocento pagine si sono mantenute in uno spazio di realtà di tipo onirico o si sono date transizioni tra diversi piani di realtà, solo in fondo al volume si ‘comprende’ finalmente la natura delle peripezie del personaggio protagonista.
Nell’impossibilità di restituire l’intero contenuto dell’opera, non resta che concentrarsi sulla scrittura. Murakami indugia su particolari anche insignificanti, ma non si tratta di un elemento debole della scrittura stessa. In realtà, l’indagine personale mira a districarsi nella selva delle circostanze occasionali e non che rendono enigmatica la parte di esistenza da cui il racconto parte. Eventi di scarso rilievo sono assunti come termini di uno spazio misterioso e sfuggente.
Il non detto prevale ad ogni piè sospinto: la vera identità dei personaggi, il vero significato di eventi che restano sospesi nell’aria perché il loro corso è stato interrotto da altri eventi non meno importanti per noi, il passato con i suoi enigmi, la storia che ritorna attraverso i racconti di conoscenti che la vissero in prima persona. Diciamo che la realtà si dispiega davanti a noi lentamente, per spostamenti progressivi dello sguardo, che si sposta sulle cose non potendo contare su un terreno solido. Frammenti di senso riposano su frammenti estesi della narrazione. Essi non trovano in se stessi il senso che manca a una prima osservazione attenta. Solo le scoperte successive svelano allo sguardo il senso di ciò che stava davanti agli occhi del personaggio.
La lingua non è fatta di schegge di saggezza sparse qua e là. Ciò che viene restituito è l’umile splendore della vita quotidiana, il vivere comune immerso negli oggetti noti da sempre. L’effetto straniante di un abbandono si avverte dal modo di ‘apparire’ degli oggetti stessi: il significato di un guardaroba femminile, ad esempio, è tutto da decidere, dopo che la donna se ne sia andata… La voce narrante ci guida per mano. Pagina dopo pagina non dobbiamo fare nessuna fatica ad attingere il senso generale del racconto, salvo ritrovarsi più volte immessi in realtà insospettate, con i pochi elementi in mano di cui servirsi fino alla fine. Tutto acquista senso in fondo al testo, ma non si prova alcun rammarico per la conclusione ormai ‘raggiunta’: piuttosto, il cuore della scrittura non andrà cercato nello sbocco assegnato al racconto. E’ come se ci trovassimo di fronte a unità testuali e di senso più ampie della pagina e del capitolo. Bisogna ‘conservare’ ogni grumo delle esistenze incontrate. Sembra che non ci sia posto per il personaggio maggiore a cui contrapporre il simmetrico personaggio minore: veramente, come direbbe Kundera, ogni individuo ha il diritto di esistere. Anche il più spregevole di tutti concorre a far ‘reggere’ la struttura del récit.
La narrazione dopo tutto restituisce il ritmo della vita. Non è forse vero che il concreto sia ciò che dura, e ciò che dura non è forse il ripetersi sempre uguale della vita che si ostina a fare dono di sé nelle forme più disparate, ingannandoci ora con l’apparente ripetitività delle cose ora con lo sbadiglio che ci assale quando non si direbbe che le cose stesse meritino di precipitare nella noia e nell’impermanenza?
Da una prima lettura si può dire solo bene di Murakami. Mentre mi inoltro nella lettura di 1Q84, appena uscito, penso già di tornare sull’Uccello che girava le viti del mondo, perché le giornate trascorse con Murakami erano rallegrate da una bella continuità istituita dalla consuetudine di vivere con lui: sicuramente, la prossima volta che lo leggerò sarà diverso. Mi accorgerò che mi era sfuggito un dettaglio non marginale che mi aiuterà ad allontanarmi dalla mia realtà con più costrutto. Uscire da questa lettura non è facile, perché essa costringe a chiedersi quale posto si debba assegnare al sogno e alla visione e se meriti credito il regime delle coincidenze e delle circostanze fortuite che pure fanno storia.
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