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Creato il 04 febbraio 2011 da Frafiori

Sapete che per Dostoevskij ho una passione smodata. Ecco un estratto di Delitto e Castigo passato alla storia come “Il sogno di Raskolnikov”.
Enjoy.

Di colpo tornò in sé.
«Dopo quella faccenda!» esclamò, balzando su dalla panchina. «Ma forse che ci sarà, quella faccenda? Ci sarà veramente?»
Lasciò la panchina e si allontanò quasi di corsa; voleva tornare indietro, verso casa, ma all’improvviso si sentì nauseato all’idea che proprio là, in quel buco, in quell’orribile specie di armadio, tutta quella faccenda andava maturando già da più di un mese. Così, si lasciò andare dove lo portavano le gambe.
Il suo tremito nervoso si era convertito in qualcosa di simile a brividi di febbre; con tutto quel caldo, sentiva freddo. Con uno sforzo quasi inconsapevole, per una specie di necessità interiore, cominciò a osservare attentamente tutti gli oggetti che gli capitavano sott’occhio, come cercando ad ogni costo di distrarsi, ma riuscendovi male, tanto che ricadeva di continuo nelle sue fantasticherie. Quando poi, con un tremito, risollevava il capo e si guardava attorno, subito dimenticava a cosa stesse pensando e perfino per dove fosse passato. In tal modo attraversò l’intero Vasìlevskij Òstrov, sbucò sulla Piccola Neva, oltrepassò il ponte e tornò sulle Isole. A tutta prima, il verde e il fresco riuscirono graditi ai suoi occhi stanchi, abituati alla polvere della città, alla calcina e agli edifici enormi, opprimenti e asfissianti. Lì non c’erano né afa, né puzzo, né bettole. Ma ben presto anche quelle sensazioni nuove, piacevoli, divennero morbose e irritanti. Si fermò davanti a qualche villa adorna di piante di varia specie; guardando oltre il recinto scorgeva, in lontananza, sui balconi e sulle terrazze, donne vestite con eleganza, e bambini che correvano in giardino. Soprattutto lo interessavano i fiori, li osservò più a lungo d’ogni altra cosa. Si imbatté anche in lussuose carrozze, in cavalieri e amazzoni; li accompagnava con uno sguardo curioso, ma si dimenticava di loro prima ancora che scomparissero alla sua vista. Una volta si fermò e contò i soldi che aveva in tasca; erano circa trenta copeche: «Venti le ho date alla guardia, tre a Nastàsja per la lettera… Ieri, dunque, ho dato ai Marmelàdov circa quarantasette copeche, o forse cinquanta,» pensò, spinto da chissà quale motivo a questi calcoli; ma subito dimenticò perfino perché s’era cavato quegli spiccioli di tasca. Se ne ricordò poco dopo, quando, passando davanti a una specie di taverna, sentì d’avere appetito. Vi entrò, vuotò un bicchierino di vodka e cominciò a mangiare un tortello ripieno. Finì di mangiarlo per la strada. Non beveva vodka da moltissimo tempo e l’effetto fu istantaneo, benché ne avesse bevuto soltanto un bicchierino. Si sentì d’un tratto le gambe pesanti, e una forte sonnolenza. Si avviò in direzione di casa sua; ma, arrivato al Petròvskij Òstrov, si fermò completamente sfinito; lasciata la strada, s’inoltrò fra i cespugli, cadde sull’erba e si addormentò all’istante.
I sogni di un malato sono caratterizzati spesso da straordinario rilievo, vividezza ed eccezionale somiglianza con la realtà. L’evento è, a volte, mostruoso, ma l’ambiente e l’intero processo della rappresentazione sono così verosimili e così ricchi di sfumature, di particolari inattesi ma artisticamente appropriati all’insieme, che chi sogna non saprebbe inventarli da sveglio, nemmeno se fosse un artista della grandezza di Puškin o di Turgenev. Questi sogni, poi – sogni morbosi -, rimangono a lungo impressi nella memoria, e producono un’impressione profonda su un organismo già scosso ed eccitato.
Il sogno di Raskòlnikov fu spaventoso. Sognò la sua infanzia, quando viveva ancora nella piccola città natale.
Ha sette anni e, in compagnia di suo padre, sta andando a passeggio fuori città, in un giorno di festa, sul far della sera. Il tempo è grigio, afoso, la località assolutamente identica a come si è conservata nella sua memoria: anzi, nella memoria è molto più scialba di come la rivede nel sogno. La piccola città sorge come sul palmo di una mano, senza nemmeno un salcio intorno; solo molto lontano, proprio dove s’incontrano la terra e il cielo, nereggia un boschetto. A pochi passi dall’ultimo orto della città c’è una bettola, una grossa bettola che ha sempre suscitato in lui un’impressione sgradevolissima e perfino un senso di paura quando passava lì vicino, andando a passeggio col padre. Era sempre così gremita, e risonante di tante urla, sghignazzi e bestemmie, di canti così rauchi e disgustosi, di risse così frequenti; e intorno alla bettola andavano sempre a zonzo tipi dalle grinte così ebbre e terribili… Nel vederle, egli si stringeva al padre e tremava tutto. Di fianco alla bettola passava la strada, una stradina di campagna sempre polverosa, e quella polvere era sempre così nera. La strada procede serpeggiando, poi, dopo trecento passi, si aggira sulla destra il cimitero della città. In mezzo al cimitero sorge una chiesa in muratura, con la cupola verde, dov’egli andava a messa, con suo padre e sua madre, un paio di volte all’anno, quando si celebrava l’ufficio funebre in memoria della nonna, morta tanto tempo prima e che lui non aveva mai visto. Quelle volte si portavano sempre dietro una kutjà sopra un piatto bianco, avvolta in un tovagliolo, e la kutjà era di zucchero e riso e uva secca composta in forma di croce. Egli amava quella chiesa e le sue antiche icone, quasi tutte prive della parte metallica, e il vecchio prete dalla testa tremolante. Accanto alla tomba della nonna, coperta da una lastra, c’era anche la piccola tomba del suo fratello minore, morto a soli sei mesi e che pure lui non aveva conosciuto e non poteva ricordare; però gli avevano detto che aveva avuto un fratellino, e ogni volta che visitava il camposanto si faceva il segno della croce, con religiosa devozione, sopra la piccola tomba e si chinava su di essa per baciarla.
Ecco il sogno che fece: lui e suo padre camminano lungo la strada che porta al cimitero e passano davanti alla bettola; egli tiene il padre per mano e si volta timorosamente a guardare la bettola. Una circostanza speciale attrae la sua attenzione; sembra che là dentro, ora, ci sia una festa, con una folla di mogli di piccoli commercianti e artigiani, tutte agghindate, e di contadine con i loro mariti, e con ogni sorta di gentaglia. Sono tutti ubriachi, tutti cantano canzoni, e
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vicino all’ingresso della bettola c’è un carro da contadino, uno strano carro; uno di quei carri a cui si attaccano grossi cavalli da tiro e che servono al trasporto di merci e botti di vino. A lui era sempre piaciuto guardare quelle enormi bestie da tiro, con le loro lunghe criniere e le loro zampe massicce, andarsene tranquille, con passo cadenzato, tirandosi dietro un’intera montagna di roba senza il minimo sforzo, come se con il carro dietro si sentissero perfino più leggere. Ma ora, strano a dirsi, a un così pesante carro era attaccata una piccola e magra rozza contadina, color baio chiaro, una di quelle che – come spesso aveva visto – non ce la fanno, a volte, a tirare un carico di legna o fieno, specialmente se il carro affonda nel fango o in un solco della strada; e i contadini le frustano con incredibile violenza, a volte perfino sul muso e sugli occhi, e lui ne provava tanta ma tanta pena, che per poco non piangeva, e la mamma, allora, doveva allontanarlo dalla finestra. Ma ecco, improvvisamente, un gran baccano: dalla bettola escono tra grida e canti, con le loro balalajke, ubriachi fradici, contadini ben piantati dalle camicie rosse e azzurre, il gabbano gettato sulle spalle: «Montate, montate tutti !» grida uno di loro, un giovane, con il collo taurino e il volto carnoso, rosso come una carota. «Vi porto tutti a casa, accomodatevi!» Ma subito echeggiano risate e proteste:
«Ma dove vuoi che ci porti questa vecchia rozza?»
«Tu, Mikòlka, sei diventato proprio matto! Attaccare un cavalluccio così a un carro di questi!»
«Lo sapete, ragazzi, che questo cavallo avrà i suoi bravi vent’anni?»
«Montate, vi porto tutti a casa!» grida di nuovo Mikòlka, e saltando per primo sul carro afferra le redini e si erge a cassetta in tutta la sua statura. «Il baio è andato via l’altro giorno con Matvèj,» grida dal carro, «e questa cavallina, miei cari, mi fa proprio morire: quasi quasi vorrei ammazzarla, tanto mangia il mio frumento a sbafo. Su, sedetevi! La metterò al galoppo! Vedrete come galopperà!» e piglia in mano la frusta, accingendosi, tutto felice, a frustare la bestia.
«Ma sì, coraggio, montiamo!» sghignazzano dalla folla. «Lo hai sentito, si andrà al galoppo!»
«Scommetto che saranno dieci anni che non galoppa più…»
«Ma adesso lo farà!»
«Dateci dentro, ragazzi, pigliate la frusta, pronti!»
«Via ! … Frustatela !»
Tutti salgono sul carro di Mikòlka tra scherzi e risate. Sono già saliti in sei, e c’è ancora posto. Pigliano con loro una contadina, grassa e rubiconda. Ha una veste di cotonina rossa, una cuffia con le perline di vetro e zoccoli ai piedi; schiaccia nocciole con i denti ridacchiando. Anche tra la folla, intorno, si ride; e, del resto, come non ridere? Una cavallina così malandata, mettersi al galoppo con un simile peso! Subito due giovanottoni, sul carro, afferrano la frusta per dare una mano a Mikòlka. Si sente un «su-u!» La rozza ce la mette tutta ma, altro che galoppo! riesce a malapena a spostare il carro, non fa che agitare le zampe, gemere e rattrappirsi sotto i colpi delle tre fruste, che le piovono addosso come una gragnola. Sul carro e tra la folla raddoppiano le risate, ma Mikòlka si arrabbia: tutto furioso, fa piovere sulla cavallina colpi sempre più fitti, come se credesse davvero di farla partire al galoppo.
«Fatemi posto, ragazzi!» grida dalla folla un giovanotto che ci ha preso particolarmente gusto.
«Monta! Montate tutti!» urla Mikòlka. «Vi deve portare tutti. La frusterò a morte!» E frusta, frusta, e per la gran furia non sa nemmeno più con che cosa picchiarla.
«Babbo, babbino,» grida il bambino al padre, «babbo, che cosa fanno? Babbo, picchiano quel povero cavallino!»
«Andiamo, andiamo!» dice il padre, «sono ubriachi, se la spassano, quelle carogne: andiamo via, non stare a guardare!» E vorrebbe portarlo via, ma lui si strappa dalle sue braccia e, fuori di sé, corre verso il cavallino. Ma il povero cavallino, ormai, è allo stremo. Ansima, si ferma, dà di nuovo uno strattone e per poco non cade.
«Frustiamolo a morte!» grida Mikòlka, «non c’è altro da fare L’ammazzerò!»
«Ma non sei cristiano, dunque, brutto animale?!» grida un vecchio dalla folla.
«S’è mai visto che un cavalluccio così tiri un simile peso?» aggiunge un altro.
«Lo farai fuori!» grida un terzo.
«Sono affari miei! È roba mia! Faccio quel che voglio! Montate ancora! Montate tutti! Voglio vederlo galoppare e basta!…»
A un tratto si leva una salva di risate che copre ogni altro rumore: la cavallina non sopporta più quei colpi così fitti e, impotente, comincia a scalciare. Perfino il vecchio non può fare a meno di sorridere. Una bestia così malridotta, ecco che si mette a sparar calci!
Due giovanotti della folla ti pigliano anch’essi una frusta per uno e corrono presso la cavallina per frustarla sui fianchi: uno da una parte, uno dall’altra.
«Dagli sul muso, sugli occhi, sugli occhi!» grida Mikòlka.
«Una canzone, ragazzi!» grida qualcuno sul carro fra il consenso generale. Si leva nell’aria una canzone sfrenata, accompagnata nei ritornelli da fischi e dal suono del tamburello. La contadinotta schiaccia nocciole coi denti e ridacchia sempre.
Il bambino accorre verso la cavallina, corre più avanti e vede come la frustano sugli occhi, dritto sugli occhi! Allora piange: il cuore gli si gonfia e colano le lacrime. Uno di quelli che si accaniscono sulla bestia gli sfiora con la frusta il viso, ma lui non sente; si torce le mani, grida, si slancia verso il vecchio con i capelli e la barba bianca, che sta scuotendo il capo perché disapprova tutto questo. Una donna lo prende per un braccio e vuol condurlo via, ma lui si divincola e corre di nuovo verso la cavallina, che è già ai suoi ultimi sforzi, eppure ancora una volta si mette a scalciare.
«Che ti venga un colpo!» esclama Mikòlka, fuori di sé per la rabbia. Getta la frusta, si china e tirata su dal fondo del carro una lunga e grossa stanga, l’afferra con tutt’e due le mani e l’alza a fatica sopra la bestia.
«Ora la fa in pezzi!» gridano intorno.
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«L’ammazza!»
«È roba mia!» urla Mikòlka, e con tutto lo slancio di cui è capace fa ricadere la stanga. Si sente un tonfo sordo.
«Frustatela, frustatela! Perché vi siete fermati?» si levano voci dalla folla.
Mikòlka, intanto, brandisce un’altra volta la stanga, e un altro colpo piomba sul dorso dell’infelice rozza che si accascia con tutto il deretano, ma subito balza di nuovo sulle zampe e tira, tira con le sue ultime forze ora di qua, ora di là, per smuovere il carro. Ma da ogni lato le arrivano addosso sei fruste, mentre la stanga si solleva e ricade per la terza volta, poi per la quarta, con ritmo regolare, con slancio. Mikòlka è furioso perché non è riuscito ad accopparla con un sol colpo.
«Ha la pelle dura!» gridano intorno.
«Adesso scommetto che cade, ragazzi! Adesso crepa!» grida dalla folla uno che se la sta godendo un mondo.
«Ci vorrebbe la scure, altro che storie! Finirla con un colpo!» grida un terzo.
«Che ti venga il cancro! Fate largo!» si mette a urlare come un pazzo Mikòlka; getta via la stanga, si china di nuovo a cercare nel carro e tira su una spranga di ferro. «Attenzione!» grida, e molla con tutta la sua forza un gran colpo al suo povero cavallino. Ecco, il colpo è partito; la bestia barcolla, si accascia, fa come se volesse ancora tirare, ma la sbarra le ricade sul dorso ed essa stramazza a terra, come se le avessero tagliato tutte e quattro le zampe d’un sol colpo.
«Finitela!» grida Mikòlka, mentre balza giù dal carro, completamente fuori di sé. Alcuni contadinotti, anch’essi rossi e ubriachi, afferrano quel che gli capita sotto mano, fruste, bastoni, la stanga, e corrono verso la cavallina ormai sul punto di crepare. Mikòlka si mette di fianco e continua a menarle inutilmente altri colpi sul dorso. La rozza allunga il muso, emette un pesante sospiro e muore.
«L’ha proprio fatta fuori!» gridano nella folla.
«È roba mia!» urla Mikòlka, con la spranga in mano e gli occhi iniettati di sangue. Sta lì, e sembra scontento di non aver più nessuno da picchiare.
«Davvero non sei cristiano!» gridano numerose voci dalla folla.
Il bambino, ormai, non sa più quello che fa. Gridando si fa largo tra la folla, si avvicina alla bestia morta, ne cinge con le braccia il muso insanguinato e la bacia, la bacia sugli occhi, sulle labbra… Poi, d’un tratto, balza in piedi, e fuori di sé si slancia con i piccoli pugni alzati contro Mikòlka. Proprio in quel momento il padre, che già da un pezzo lo rincorre, finalmente lo acchiappa e lo conduce via dalla folla.
«Andiamo! Andiamo!» gli dice, «andiamo a casa!»
«Babbo! Ma perché… hanno ammazzato il povero cavallino?» domanda singhiozzando, mentre gli manca il respiro e dal petto oppresso le parole gli escono come strida.
«Sono ubriachi, se la spassano, non è roba che ci riguarda, andiamocene!» dice il padre. Il ragazzo lo abbraccia, ma il petto gli si serra, gli si serra sempre di più, vorrebbe tirare il fiato, gettare un grido, e si sveglia.
Si svegliò tutto sudato, con i capelli bagnati di sudore, sentendosi soffocare, e si sollevò pieno di spavento.
«Grazie a Dio, era soltanto un sogno!» disse, sedendosi sotto l’albero e tirando un profondo respiro. «Ma cosa mi piglia? Che sia la febbre? Un sogno così schifoso!»
Si sentiva come rotto in tutto il corpo, e aveva nell’anima un senso di buio e di torbido. Mise i gomiti sulle ginocchia e si puntellò il capo con ambo le mani.
«Dio mio!» esclamò, «ma davvero io prenderò una scure, mi metterò a colpirla sulla testa, le fracasserò il cranio?… E poi scivolerò nel sangue tiepido, appiccicoso, per forzare la serratura e rubare; e mi nasconderò tremando, tutto inondato di sangue… con la scure… O Signore, è davvero possibile»
Nel dire così tremava come una foglia.

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