Questo è il titolo del primo racconto che si trova nella raccolta “Se hai bisogno, chiama”, di Raymond Carver. È postumo, si tratta cioè di quelle storie alle quali Carver stava dedicando le sue ultime energie prima di morire, nel 1988. Quanto è “diverso” da quello che abbiamo conosciuto ad esempio in “Vuoi stare zitta per favore?”. Qui come sappiamo, ci fu la mano (pesante) dell’editor Gordon Lish, ma il mio interesse è altrove. Nell’evoluzione dell’autore.
Un autore alla fine scrive del suo mondo: lui cambia, si sposa o divorzia oppure trasloca da uno stato all’altro ma come sanno quasi tutti, racconta più o meno le stesse cose. Non perché non abbia “fantasia” o inventiva. Ci sono dei fantasmi, dei temi al quale ci si dedica. Poi in maniera inevitabile, succede che la vena creativa si inaridisca; non è il caso di questo racconto.
Il protagonista, Meyers è uno di quei personaggi tipicamente carveriani: un alcolizzato. Alle spalle una vita a pezzi: una moglie che ha ottenuto una diffida dal tribunale contro di lui e che si è messa con un altro, anch’egli amante della bottiglia. Lui ficca in valigia un po’ di cose, e va a vivere in affitto in una camera di una casa abitata da marito e moglie. La finestra mostra il profilo delle vette delle montagne, si sente il fiume scorrere. Che fa, Meyers?
Nulla.
Era la metà di agosto e Meyers era sospeso a metà tra una vita e l’altra.
Esatto, vive così. Esce dalla sua camera quando i proprietari non ci sono. Evita con loro ogni contatto. Sembrano brava gente, ma lui non è lì per fare amicizia, o conversazione. Deve combinare qualcosa. Forse dimostrare a sé stesso qualcosa.
È lo stesso Raymond Carver di sempre, eppure c’è dell’altro. Ho trovato bizzarro questo brano (in realtà molto più lungo di quanto riporto, ovviamente).
Le tre persone dormivano sognando, mentre fuori la luna cresceva e sembrava muoversi nel cielo finché fu al largo sopra l’oceano, sempre più piccola e pallida.
Mi è sembrata una divagazione. Nel modo di scrivere di Carver, sempre vigile e pronto a scarnificare fino a raggiungere l’osso, mi è parso un brano sorprendente. Spesso lo scrittore statunitense, si “limita” a guardare i suoi personaggi, a seguirli. Adesso lo sguardo sembra allargarsi al mondo, a quello che accade quando riposano, e a cosa succede là fuori.
E poi c’è questo fiume: il Little Quilcene. È una presenza distante, che si palesa grazie al rumore delle sue acque che precipitano. Nulla mi toglie dalla testa che il senso di questa presenza sia importante nel racconto, perché spinge, o meglio fa riemergere in Meyers qualcosa. Di primitivo, di selvaggio, però indispensabile per tentare di ricominciare. E spacca la legna.
Non importa come finisce il racconto. Carver non è interessato a nessun lieto fine (e direi che un autore ambizioso ha altro per la testa che il lieto fine). Prende un personaggio e lo mostra in un momento critico: va quasi all’avventura. Non si sa mai cosa accadrà tra un minuto o il giorno seguente. Tutto è affidato non al caso, che vuol dire tutto e nulla; ma alla vita che scorre. Meyers ascolta, osserva, e coglie la sua occasione. Non si può dire che la cerchi a tutti i costi: gli capita, e prova. Nemmeno lui ha chiaro cosa farà dopo, tranne forse un’idea vaga di “raccogliere i cocci” ed evitare di farsi troppo male coi bordi taglienti.
Carver ha sempre celebrato le erbacce: vale a dire quelle vite ai margini del sogno americano. Però ci ha insegnato che pure esse cercano un po’ di bellezza. Ne hanno diritto.
Piccola annotazione: il protagonista di questo racconto ha lo stesso nome di quello che troviamo in “Cattedrale”, nel racconto “Lo scompartimento”.