Pensavo a mia madre, quando io ero piccola. Mia madre lavorava da prima di sposarsi. Sul lavoro, è sempre stata per tutti la signora B., identificata da sempre e per sempre col suo cognome da nubile.
Le scocciava terribilmente essere chiamata col cognome di mio padre, e però si è dovuta rassegnare quando ho cominciato ad andare a scuola. Ma anche lì, si è sempre firmata anche col suo cognome.
Questa idiosincrasia di mia madre è passata anche a me. Anche se mi piace tantissimo il cognome di mio marito e odio il mio, non mi presenterei mai come "la signora A.". Ho in sommo orrore la burocrazia anglosassone, per cui da sposata "perdi" il tuo cognome e ti viene appioppato quello di tuo marito.
Poi però vai all'università e vedi docenti di ruolo che si presentano col cognome del marito, quasi come se fosse un vanto o come essere se stesse non fosse abbastanza. Conosci persone che si presentano come "mogli di" prima ancora di dire il proprio nome (e ci sta, se sono in condizioni di conoscere tuo marito, ma magari dimmelo dopo il tuo nome). Ma trovi anche persone che non si mettono la vera perché, per colpa della retorica della "moglie di", gli pare di esibire un trofeo.
Io la vera la porto. È di oro bianco, anonima. Dentro c'è scritto il nome di Luca e la data del nostro matrimonio. A pensarci bene, avremmo potuto metterci la data del nostro anniversario "vero", ma chisse. Non è un trofeo, è una coperta di Linus. Non serve a ricordare agli altri che sono sposata, serve a ricordarlo a me. Mi ricorda che non sono sola, nel bene e nel male. Mi ricorda che ho scelto di amare e di essere amata, con tutti i vincoli e i comfort.
La mia vera non dice cosa sono: dice chi sono. Chi ho deciso di essere.
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