Leone

Da Mizaar

La foto del giovane uomo seduto era posta a vigilare il pianerottolo di mezzo della nuda scala di pietra che portava al piano di sopra. Quell’immagine un poco intimoriva anche Rosaria che ne stava lontana; quando saliva al piano di sopra teneva giù la testa per non guardarla. Il giovane uomo era stato colto dal destino su un campo di guerra, la prima, mondiale. Nessuno aveva ritrovato il corpo e, prima disperso, poi dichiarato morto, viveva nella casa di quella sorella timorosa e memore, nel bianco e nero dell’immagine che non piaceva a nessuno. La faccia seria, il vestito buono, il giovane posava in quella foto senza un fondo. Era rappresentato in modo che sfumasse in un vago contorno, come una volta venivano raffigurati i morti, quasi che la morte regalasse ad ognuno di loro uno stato di indeterminatezza manifesta nello sfumato. Lui era il fratello più grande di quattro figli. Quello rimasto aveva beneficiato della morte del grande mancando all’appuntamento con la storia: non aveva fatto il militare, non era andato a fare la guerra successiva. Rimasto a guardia di due sorelle presto date in sposa per non incappare in fastidi, s’era sposato a sua volta con Luigina. Lui bello con gli occhi azzurri come l’acciaio, taglienti e sospettosi, teneva fede a quel nome, Leone, nell’atteggiamento e nei modi di fare – un nome strano, in verità, così dissimile da quelli usati abitualmente al paese. Faceva il massaro, mestiere che era stato della madre e del quale aveva beneficiato, come del resto, in assenza del fratello morto in guerra. Luigina, la sposa che gli aveva dato una teoria infinita di figli maschi nati morti, gli aveva poi partorito, infelicemente per lui che ci teneva, tante figlie femmine che tuttavia erano andate via presto di casa, come le sorelle cedute ad altre potestà, quando non erano neppure maggiorenni. Luigina era una sposa perfetta per lui, piccola, con le gambe arcuate da un principio di rachitismo, allegra quello sì, una sposa che non l’avrebbe mai tradito, vista la mancanza di attrattive, non come facevano quelle che lui era abituato a frequentare. Era attratto dalle altre spose, nei letti delle quali si infilava disinvoltamente in mancanza dei legittimi proprietari, andati in guerra, la seconda, mondiale, la stessa che lui aveva scampato grazie al fratello morto. E così in un tutto quel traffichìo continuo anche Luigina aveva saputo che la caccia alle lepri non era l’unico diversivo alla vita di famiglia nel piccolo paese, ma c’erano anche altre lepri con meno pelliccia, ma sicuramente più disponibili a lasciarsi catturare. Leone le coglieva a volte nei campi, dove andava a vigilare che il lavoro fosse fatto per il meglio. In quelle occasioni sentiva forte il diritto di usare la terra, le bestie e le persone a suo piacimento, più e meglio di quel padrone che viveva a Roma e che, se tutto fosse andato bene, avrebbe rivisto a fine della guerra. All’inizio le comari furono discrete nel riferire le attività nei campi. Andarono a casa di Rosaria la sorella di Leone, maritata per prima poiché era la più grande, la custode della memoria del fratello morto.  Così, così, così, dissero quelle con dovizia di particolari e di nomi. Ma Rosaria non si scompose e alzando le spalle disse loro, Uomo è! Le comari andarono via sapendo che l’ambasciata sarebbe comunque arrivata alla destinataria. Così fu che Rosaria salì l’altra scala di pietra che separava le due case, la sua e quella del fratello rimasto, pensando al possibile destino di Leone  scampato è vero alla guerra, ma probabile candidato a morire di morte violenta per mano di qualche soldato in licenza, marito di una sciagurata e occasionale lepre da campo. Luigina pianse la sua sorte e quella delle sue figlie tutte femmine. Neanche un maschio a difenderla e senza fratelli per affrontare il suo bel marito sciagurato. Gridò contro Rosaria, le rinfacciò che il vizio del tradimento era, evidentemente, un vizio di famiglia in considerazione del fatto che anche l’altra sorella, la più piccola, appena il marito era emigrato in Argentina, aveva pensato bene di ” farsi rifare ” la vita, entrando a servizio in casa di un ricco notabile del paese. A sua discolpa c’era da dire che il marito emigrato era sparito nel nulla e che il notabile era un giovanottino di primo pelo che le era poi rimasto fedele, facendole fare un mucchio di figli, oltre coloro che il marito argentino le aveva lasciato in casa, bocche da uccellini da sfamare. Però sempre tradimento era!, pensava e diceva Luigina. Ma Rosaria aveva argomenti validissimi da contrapporre alla furia di quella cognata così piccola e sgraziata, poverina. Le disse che Leone era un uomo e si comportava come tale – indiscutibile e inoppugnabile argomento, in un paese dove le donne valevano quanto il due di picche. E poi dove sarebbe andata con tutte quelle figlie femmine? La puttana, alla fine, sarebbe stata lei invece delle lepri da campo. Luigina ammise e convenientemente tacque. La guerra infine finì e tornarono gli uomini. Qualcuno fu messo sull’avviso da qualche compare – tra i fumi dell’alcol all’osteria, si parla e si sparla. Ci furono lepri bastonate e altre ignorate. Alla fine tutto tornò ad essere come era sempre stato, in cambio di cibo per sfamare anche gli uomini tornati dall’orrore della guerra, la seconda, mondiale, che Leone aveva scampato, le lepri si facevano catturare nel cavo di un ulivo secolare oppure a ridosso di un casolare, tra il frinire delle cicale e il caldo bollente dell’estate.  E quei figli maschi che Luigina non aveva saputo fare, erano le lepri che li partorivano tra i dolori, soddisfatte di avere la testimonianza di quegli occhi azzurri come acciaio, occhi vogliosi all’occorrenza, sotto gli occhi, tutti i giorni, a ricordar loro l’estate e la gola riarsa dalla voglia. Così Leone passò con possanza una buona parte della sua vita con Luigina sempre al suo fianco. Quando i capelli castani cominciarono ad imbiancare Leone si invaghì di una donna molto giovane, forse l’unica che gli avesse fatto perdere la testa davvero. Le affittò una casa in paese a due passi dalla casa dove viveva sua moglie; con il tempo e gli acciacchi, però, non fu più in grado di spostarsi agevolmente come prima e chiese all’altra di abitare con lui la casa di Luigina. Arrivò gravida di otto mesi, salendo le scale a fatica. Come sempre la moglie convenientemente tacque. Dove sarebbe andata a finire ora che, anziana, aveva guadagnato anche il disprezzo delle figlie? Finì per affezionarsi a quella disgraziata che le aveva occupato la casa e che aveva anche lei avuto la sfortuna di mettere al mondo una lepre con gli occhi azzurri, come il padre massaro. Morì di crepacuore per quello che la sorte le aveva ricamato come sudario. L’altra la compose sul letto di morte e pianse per il suo destino di donna mai amata. Una mattina di agosto, con le cicale che facevano rumore come in quelle giornate in cui andava a caccia di lepri, Leone ebbe un infarto. Tentando di sorreggersi ad una mensola, fece cadere la foto della moglie morta, sfumata anche lei nell’indeterminatezza di uno sfondo inesistente, come quel giovane cognato che non aveva mai conosciuto se non in fotografia, la foto di un morto. Tra i vetri aguzzi Luigina sorrideva mesta, come aveva sempre fatto. Un lamento flebile gli uscì dal petto trafitto da dolori lancinanti. Il rumore richiamò anche l’altra che stava impastando il pane. Lei guardò Leone in terra tra i vetri della foto, con indifferenza, guardò Luigina persa nel vago dello sfumato e le sorrise. Poi si pulì le mani al grembiule che le cingeva i fianchi, lo slacciò, si ravvivò i capelli e uscì di casa.


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