Metti che sei un distributore italiano, metti che metti gli occhi su un bel film, di quelli seri e magari non proprio acchiappapubblico ma che il suo perchè e il suo valore ce l'ha.
Decidi quindi di comprarlo, e di distribuirlo nel tuo Paese, l'Italia.
A quel punto ti si presenta il problema di come intitolarlo, questo film.
Vediamo, è un film francese, dal nome di per sé accattivante (Les Combattants), ma ti ci vede quei signori e quelle signore di una certa età entrare nel loro cinemino d'essai e chiedere un biglietto per Les Combattants?
No, non potrebbe funzionare.
E allora, sai che fai?
Lo chiami The Fighters, un bel nome inglese altisonante, utilizzato già altre volte, magari al singolare, ma che importa.
L'inglese attira.
Molto più del francese.
Molto più di un I combattenti, che presagiva anarchie e proteste.
E allora eccotelo qui, il film impegnato francese con il titolo stupidamente anglosassone.
Chiudiamola qui la diatriba con i titolisti italiani con cui è tanto facile prendersela quanto iniziare un post, e veniamo al dunque, veniamo a quel film francese dal titolo, e a ben guardare non solo, inglese.
Les Combattants giace nella mia (lunga) lista dei "da vedere" dalle vacanze di Natale, da quando il mio ormai ex compagno di cinema me lo ha suggerito, lui che ora vive e lavora a Parigi e si fa le matiné nei cìnemà.
A furia di preghiere, qualcuno mi ha dato ascolto e nel mese di aprile Les Combattants è uscito in Italia, ma solo nello scorso fine settimana nel cinemino della zona, nello stesso giorno, tra l'altro, in cui compariva in rete (quindi sì, lo potete reperire con facilità).
La storia non è propriamente quella di due combattenti, di due lottatori, perchè Arnaud e molto più Clementine sono due survivalisti, due che potrebbero andare a lezione da Bear Grills per intenderci.
Mentre lui è chiamato dalla morte del padre a dare una mano all'attività che è ora del fratello e montare così casette per gli attrezzi in grandi ville, lei, che in una grande villa ci abita, ha lasciato gli studi senza futuro sulla macroeconomia, dedicandosi con anima e corpo alla resistenza, convinta che quello che davvero ci aspetta, vuoi per la crisi economica, vuoi per le epidemie, vuoi per il surriscaldamento globale, è la fine.
La fine di tutto, dove solo chi è abituato e allenato a resistere può farcela.
Per questo nuota con zavorre, beve sardine centrifugate, se ne frega di balli e rimorchi facili, con l'obiettivo di perfezionarsi ed entrare così nel duro corso dell'esercito che una preparazione simile promette e chiede.
Arnaud verrà trascinato dalla sua dedizione, in quell'estate che lo vede annoiato, viene catturato dal suo fascino di diversa, e dalle lusinghe di un luogotenente dell'esercito che sembra avere un occhio di riguardo nei suoi confronti e per le sue potenzialità.
Finiscono così per iscriversi allo stesso duro corso, e lo smacco, però, arriverà subito.
Non ci sono situazioni estreme da affrontare, non c'è pericolo, non c'è disciplina, quello che davvero viene premiato ed elogiato è quel tipico atteggiamento servile dell'esercito, dove meno pensi, meglio è.
Vero è che all'invasamento nessuno è immune, e vero è che se si fosse ambientato il tutto in America, a farla da padrone sarebbero state le armi.
Qui invece si va al cuore del problema, si va senza fucili, senza pistole, in quella natura che si richiede essere selvaggia, dove ce la si vuole fare con le proprie forze.
Nel raccontarci questo, Clementine non ci viene resa certo simpatica, testarda e perennemente imbronciata, appare più tesa che pronta, rispetto soprattutto al rilassato e sicuro di sé Arnaud.
La storia tra i due sembra inevitabile, ma ogni classico tono romantico è presto smorzato, e si procede dritti per la via che si è intrapreso tra prove dure o non dure, fughe lecite e illecite, tentativi di sopravvivenza riusciti o falliti.
Il tutto sorretto dalle prove di due attori che hanno quelle facce così, che non sai se definire belle o brutte, quelle facce che a volte vorresti prendere a sberle, a volte abbracciare.
Kévin Azaïs e Adèle Haenel si muovono sul filo della precarietà che i loro personaggi percorrono, e quando si pensa che il film sia sì solido, ma anche un po' senza vero e proprio mordente, arriva una sterzata finale che lascia tra il sorpreso e l'esterrefatto.
Un colpo da maestro come il cinema francese sa fare, che fa aumentare la somiglianza con quel Take Shelter, pur con le dovute differenze, e che rende così quel film francese, dal titolo inglese, decisamente accattivante, decisamente universale.
Guarda il Trailer