Lettera a Davide P.

Da Foscasensi @foscasensi
Era di sera. Per avere un po' di freddo che rapprendesse la pelle ho aperto la finestra, piccola, al bordo del muro sopraletto. Fuori l'acacia la strada il paese come sempre sono stati al solstizio, zuccherosi di brina, e una notte sottoforma di pasta sottile stranamente una sfoglia come le scaglie la pelle che vedo squamare dalle braccia dalle spalle dalle cosce, perfino gote sopraccigli, ai piedi, i piedi nudi ritti le mie piante adese ai travicelli del soffitto.

Ai travicelli, Davide P., perché sono appesa al soffitto della mia camera di lattante, e a proposito fa uno strano effetto i capezzoli avvitati, vederli allo specchio dell'armadio qui di fronte più aguzzi di quanto normalmente permetterebbe il rigore invernale, acuminati dalla postura, meno che naturale per una donna, del pipistrello, la radice dell'ascella all'improvviso fulva ricciuta io che sono sempre stata di pelo castano e la capigliatura torrentizia di flusso come d'alga o per accostamento di colore del primo sangue che mi sono trovata un giorno addosso, la prima volta che mi lordai dopo le incontinenze infantili e prima, presumo, delle postreme, ché in un modo o nell'altro quando le cose cambiano sul serio non riesco a tenere in pancia il succo di quello che lascio che trovo, sia esso merda di lattante, mestruazione o, temo, piscio di vecchiaia.

I cani abbaiano, li sento fuori e avrei voglia di strisciare lungo la parete di sentire sulla pancia grattugiare l'intonaco e la piastra di porcellana sopra lo stipite della porta d'ingresso, la formella dove sta scritto Inri sottoforma di lettera scarlatta. Abito in una canonica e mi bagno le natiche al chiaro di luna. I cani abbaiano e mi sembrano addirittura disperati. Ti scrivo, Davide P., perché tu venga e trovi e mi dica la radice di ogni cambiamento. Tu potresti ad esempio raccogliere una lamella che è fiorita e si è lasciata andare dal braccio, e capire come la vecchia pelle sia in combutta neoplastica col nuovo derma, tutto grasso lucido e incredibile assenza di superficie. Potresti prendere un occhio (me ne serve uno più o meno) e bucare sopra e sotto con l'ago e capire se è come sospetto un po' per tutti che l'iride ha qualcosa del tuorlo ma più spirituale. Potresti infine tenere fra due dita l'uncino e passare dalla narice alle caccole al cavo mucoso della fronte e poi non so più che altro. Mi basterebbe che tu avessi il coraggio di tirar giù questo ganglio di ricotta che pulsa e fa male. E mi salvassi dalle troppe stronzate estetiche che mi impediscono di scrivere il mio romanzo.