Il nodo centrale di questo documento consiste nella promozione dei ragazzi. E appositamente ho voluto lasciare nell'ambiguità il termine: se, infatti, nucleo fondante è la promozione umana - cioè il mandare avanti i ragazzi rispetto a condizioni di autentico disagio, donare loro una scuola che sia all'altezza della loro età e dei loro bisogni - il discorso poi inciampa in quell'atto burocratico amministrativo - gli scrutini - che sanciscono il passaggio alla classe successiva.
In quest'equivoco mi sembra che si nasconda uno degli aspetti più perniciosi di un discorso (solo) in parte inattuale per via di fattori quali la trasformazione della scuola in un'agenzia erogatrice di titoli di studio (come già nella Lettera si sottolinea) e l'arroganza di moltissimi genitori, ovvero un cambiamento culturale che vede dei devastatori sempre vittoriosi in una scuola impotente a fermarli e lassista, dunque l'indifferenza nei confronti della crescita umana che oggi caratterizza il ruolo della scuola. Fermo restando che, per chi scrive, la promozione umana è necessaria ancor più oggi che non quarantasei anni fa, questo corto circuito della promozione all'anno successivo a ogni costo e per criteri aziendalistici, ignorando le differenze tra chi lavora (come può e dove arriva) e chi sistematicamente intralcia l'apprendimento collettivo, è a mio avviso del tutto inaccettabile. Almeno, lo è nella scuola superiore, qualunque sia l'etichetta - scuola dell'obbligo o meno.
Gli autori di questo j'accuse giustamente insistono sulla necessità per gli ultimi - in senso tanto sociale, quanto biblico - di una scuola che sia profondamente scuola, a disposizione dei ragazzi; una scuola che sia per tutti e non per pochi, una scuola che recuperi gli uomini dal fondo della loro infanzia e della loro ignoranza e li restituisca più pronti, più elastici e più dinamici al cuore della società che fa, che produce. In tal senso, sono comprensibilissimi gli attacchi serrati al latino e all'istruzione classica in particolare, ma anche all'inflazione del titolo di insegnante, che porta a squalificare un mestiere durissimo, che richiede una totale abnegazione di carattere sacerdotale (impressionano molto le pagine sul celibato e il nubilato necessari, o almeno del tutto preferenziali, per chi voglia fare davvero il lavoro di insegnante).
Fermo restando che non c'è contenuto che non possa e non debba essere divulgato a chiunque, se è cosa buona e profonda; il giudizio che la voce dell'autore dà di alcune discipline - in particolare di quelle classiche, ma non solo - è di disarmante e, a mio avviso, aprioristica chiusura, che si comprende benissimo alla luce di una scuola presesassntottina, ma oggi appare pregiudiziale e insensato. Non mi convince una scuola dove gli alunni discutano la selezione dei contenuti e dei metodi, non mi convince mai un discorso che risponda a una scelta proponendo un'alternativa ("perché invece...?"). Vero è che un progetto didattico è un progetto politico, e su questo punto la mia adesione al discorso che si propone in Lettera a una professoressa è totale; ma, proprio perché è politico e inclusivo, un progetto didattico rispecchia un modo di autorappresentarsi della società e, beninteso, non è per forza inamovibile. Rinnegarlo o sradicarlo ex abrupto non ha senso e non risolve il problema che si vuole denunciare.
Esistevano, esistono e - contro ogni verosimiglianza, si spera - continueranno a esistere indirizzi scolastici diversi che certo riflettono spinte diverse della società. A me pare, piuttosto, che almeno nella scuola superiore l'unico modo di includere tutte queste spinte sia di rendere sempre più degni i percorsi scolastici e i fini che questi si propongono: ovvio che si debbano motivare con ogni sforzo collettivo e individuale tutti gli studenti, e dunque ovvio che li si debbano promuovere. Però promuovere non può voler dire in nessun caso passare sopra alla specificità di un percorso formativo - da quello professionale a quello "classico" - e non può voler dire falsare quell'atto con il quale si consente il passaggio alla classe successiva, in nome di qualsiasi alibi pseudocaritatevole e buonista o di un pietismo d'accatto.