Paziente: Sig. Axxxxxx Txxxxx
Il paziente si reca, in data 22 febbraio 2010 presso questo studio cardiologico riferendo tachicardia parossistica.
Caro, Signor Axxxxxx.
In un normale pomeriggio sei entrato nella stanza del mio studio. Come tutti i pomeriggi d’altronde qualcuno entra in questo appartamento in affitto, nessun distinguo tra i pazienti: ECG, ecocardio, ECG analisi. Tutti gli stessi, aridi pomeriggi di diagnosi; solite serate a osservare quello strano organo in mezzo al petto, a studiarlo, ad ascoltare i suoi tum-ta, scordandomi di ascoltare i miei. Dimenticando l’esistenza dei miei.
Salva i cuori ma non il tuo, è questa la regola dopo anni. È questa la medicina, la cura che mi sono prescritta per proteggermi.
Ma sei arrivato tu, sei entrato e assieme al tum della porta che si richiudeva ho sentito unta. Il mio ta. Mi hai parlato del cuore che a volte lo avvertivi vivere più velocemente, battere freneticamente, mentre ti guardavo come ci hanno insegnato: guarda il visus, osserva le movenze, il colorito, attenta a fare le domande giuste per l’anamnesi. Io, però, sono andata oltre; guardavo il tuo sbattere di ciglia, il ghiaccio dei tuoi occhi, il biancore della tua barba, le linee del tuo viso, l’angolo della ruga accanto al tuo occhio destro, il modo in cui le tue labbra si aprivano accennando un sorriso, i tuoi polpastrelli che si posavano sul vetro del tavolo. Ascoltavo le tue parole, le pause tra le tue parole, il tuo intercalare così marcato. E poi di nuovo gli occhi su di te. Tum-ta, rieccolo, si stava facendo sentire.
C’era ansia nelle tue parole e io volevo rassicurarti. Tutti i pazienti vogliono essere rassicurati, io però volevo di più. Volevo dirti che sarebbe andato tutto bene perché io da quel momento avrei avuto cura di te.
Ti ho pregato a bassa voce di sederti sul lettino e di toglierti la camicia. E tu, Signor Axxxxxx, l’hai tolta delicatamente. C’era sinuosità nei tuoi gesti, c’era signorilità e non vergogna. Io ti osservavo e pensavo che stavo sbagliando, che non era professionale ma i miei tum-ta erano alienanti, scacciavano via gli unici pensieri razionali che si aggrappavano all’aridità che avevo dentro. Ti sei seduto e io ti ho attaccato gli elettrodi. Ti ho dovuto sfiorare, ho dovuto farlo mentre sprofondavo il viso tra le parole di routine: “Adesso vedremo se c’è qualche problema”.
Eccola lì la tua linea di elettricità che ti spinge alla vita. P, QRS, T, I, II, III derivazione, aVF,aVF, aVl, aVR. Tutto nella norma. Tu non mi guardavi mentre io osservavo il tracciato. Avrei voluto che tu mi guardassi e pensassi ch’io fossi sicura di me. Avrei voluto questo, proprio io così ferrea nel giudizio di me; in quel momento avevo bisogno delle rassicurazioni di uno sconosciuto per avere realmente la certezza di me, per colmare l’abisso che c’è tra la percezione di sé e quella che gli altri hanno della tua persona. Tu invece non guardavi, fissavi un punto nel vuoto, visibilmente preoccupato.
“Tutto nella norma, Signor. Axxxxxx”, ho detto. E proprio in quel momento mi hai guardata e mi piace pensare che hai notato la mia euforia – mista a timida e preoccupata riservatezza – nell’essere scoperta a fare quei pensieri.
Tutto nella norma è la frase per cui non ti rivedrò più, Signor. Axxxxxx. Tutto nella norma è la frase per cui mi sarai per sempre grato. Tutto nella norma è la frase che ti fa rivestire, la fine dei miei tum-ta, è il tuo andare via ringraziandomi e sfiorandomi la mano.
Si allega ECG.
Dott.ssa. Mxxxxxxxxx Dxxxxxxxx
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