Pierre Piccinin, storico e politologo belga, ha più volte visitato la Libia. L’ultimo viaggio risale alla fine del 2011, e quello che riportiamo di seguito ne è proprio il racconto, pubblicato il 5 gennaio scorso. La testimonianza del professor Piccinin rivela un paese instabile e lacerato dalle rivalità interne. Il quadro da lui dipinto è stato verificato dagli eventi successivi, con la ribellione di Bani Walid.
Appollaiati sulle ceneri ancora fumanti delle città di Beni Ualid e di Sirte, le cui popolazioni hanno opposto per mesi una feroce resistenza agli assalti dei ribelli venuti dall’est, i nuovi capi della Libia hanno annunciato trionfalmente la “liberazione” completa del paese, subito dopo la morte del capo di stato libico, il colonnello Muammar Gheddafi, selvaggiamente massacrato e da ultimo ucciso da un colpo alla testa, il 20 ottobre 2011, al termine di un supplizio di cui forse non si conoscerà mai alcun dettaglio, né i veri committenti (il Consiglio Nazionale di Transizione – CNT – in effetti ha rifiutato di fare un’autopsia completa e regolare ed ha ordinato la sepoltura del corpo, nella notte, nel deserto, in un luogo tenuto segreto).
Gli attacchi della NATO hanno quindi permesso ai ribelli di impadronirsi di Tripoli, e successivamente delle regioni di Beni Ualid e Sirte; e la Libia è ormai completamente ”liberata” (o “conquistata”; secondo i punti di vista); ma per il momento non ancora pacificata: se la maggior parte dei media mainstream non ne parla, a Sirte, a Beni Ualid, ma anche nel sud della Tripolitania e nella vasta regione del Fezzan, nei villaggi e nelle oasi che popolano il grande sud ovest libico, la resistenza rimane attiva, come ho potuto costatare nel corso dei molti giorni del viaggio che mi ha portato da Tripoli alle rovine di Sirte fin dentro il Sahara, alle frontiere dell’Algeria e del Niger.
In questo territorio immenso la lotta prosegue ancora.
Un elegante capitano del CNT, che parlava un inglese irreprensibile, mi ha fatto attendere lì per circa un’ora, prima di timbrare finalmente il mio passaporto in cambio di due biglietti da cento dollari americani ciascuno. Si poteva dedurre dall’avventura – piccolo dettaglio – che le buone vecchie abitudini, rivoluzione o meno, non si erano mai perse. Sì, ma ecco…. Sotto la dittatura kadafista, queste pratiche nei confronti degli stranieri, radicalmente proscritte, erano severamente represse.
La nuova Libia sembra più accommodante.
La regione resta tuttavia instabile: è abitata dai clan tripolitani della tribù dei Warfalla, la più importante della Libia, che durante il conflitto s’è divisa; i Warfalla di Tripolitania, infatti, hanno rifiutato di unirsi alla ribellione e restano ostili al CNT, a fortiori dopo la sconfitta nei confronti dei ribelli, ma soprattutto nei confronti delle armate straniere della NATO…
L’indomani mi sono recato a Sirte, la città d’origine di Muammar Gheddafi.
Prima di arrivare a Sirte, ho attraversato Zliten e Misurata, culle delle uniche due tribù dell’ovest che, con i Berberi di Djebel Nafousa (a sud di Tripoli), si sono sollevate contro il governo libico e si sono ricongiunte alla ribellione, permettendo anche l’accerchiamento della capitale. Le due città hanno subito importanti bombardamenti di artiglieria pesante da parte delle forze armate libiche fedeli a Gheddafi. A Misurata, in particolare, numerosi edifici sono stati colpiti ed in parte distrutti nel corso di combattimenti che si sono svolti tra marzo ed aprile.
Se Misurata si è ricongiunta alla ribellione, ciò è accaduto allo scopo di sbarazzarsi della tutela del governo di Tripoli. Oggi i capi dei clan di Misurata, dunque, rifiutano di sottomettersi ad una nuova autorità e contano di negoziare bene da pari a pari col CNT (stessa cosa per i Berberi – un decimo della popolazione libica – che rivendicano il riconoscimento del loro particolarismo regionale e si oppongono all’idea di una Libia nazionalista arabo-musulmana; i Berberi i cui miliziani si scontrano quotidianamente con gli islamisti che, armati dal Qatar, hanno avuto una parte importante nella conquista e nel controllo di Tripoli).
La città è stata così trasformata in un forte trincerato e dei carri ne sorvegliano le entrate. Ma queste misure difensive non si spiegano soltanto col fatto che Misurata si prepara a difendere la sua autonomia: accerchiata da coloro che aveva sconfitto, la tribù di Misurata è odiata dai suoi vicini di Tripolitania ed è di fatto in stato d’assedio rispetto alla resistenza che persiste.
Tuarga è quindi, oggi, una città fantasma. Non vi dimora che qualche tiratore imboscato, qualche “sniper”; impossibile per me, come occidentale (dunque assimilato alla NATO ed ai ribelli), penetrare nelle viuzze strette della città senza prendere una pallottola…
Dopo due ore di strada attraverso il deserto, ho raggiunto Sirte.
Era la prima volta che vedevo una città completamente bombardata, devastata dal diluvio di fuoco che si può immaginare guardando ciò che resta degli edifici: le strade bucate dagli obici, gli edifici crollati, i muri crivellati, i pannelli di segnalazione ed i lampioni fatti a pezzi dalla mitraglia, le automobili rovesciate dallo spostamento d’aria delle esplosioni, scagliate sulle facciate delle abitazioni o su altri veicoli… Un’intera città in gran parte scomparsa.
A Sirte ed a Beni Ualid, le nuove autorità non hanno ristabilito la distribuzione dell’acqua, né dell’elettricità, né l’approvvigionamento di carburante (in ogni caso noi avevamo portato delle taniche di benzina per non rimanere a secco). Allo stesso modo, la distribuzione di vestiti e di derrate alimentari alle popolazioni è razionata e volontariamente limitata dai miliziani del CNT, compreso quando si tratta di aiuti del Programma alimentare mondiale (è stato durante una distribuzione, a Sirte, che mi è stato impedito di fare foto per la prima volta dall’inizio del conflitto). Nessuna ricostruzione è stata ancora iniziata e nessun campo di tende è stato ancora montato.
Lo scopo è evidente…
Al momento della battaglia di Sirte, presentata dai media occidentali come la vittoria di una ribellione democratica, la NATO, senza ombra di dubbio, si è resa colpevole di un crimine di guerra nel senso più stretto del diritto internazionale e delle due Convenzioni di Ginevra. Sirte, una città di 134.000 abitanti, oggi è un ammasso di rovine; solo un quartiere è stato risparmiato parzialmente, quello a nord-est. «Vae victis!», proclamavano i Romani; «Guai ai vinti!»: come Dresda, Sirte non sarà probabilmente mai oggetto di un processo davanti ad un improbabile tribunale internazionale per la Libia…
L’obiettivo del CNT era quindi di evitare che questi clan ostili si ricostituissero e riprendessero presto o tardi i combattimenti per vendicare i loro morti e liberarsi dalla tutela dei vincitori.
A Sirte, in compenso, sono rimasti davvero pochissimi abitanti. Quando ci sono stato, anche lì, sono stato preso da parte da alcune persone che mi si sono avvicinate, per cui ho cercato il dialogo: mi hanno domandato la mia nazionalità; ho mostrato loro il mio passaporto belga ed il clima s’è disteso. Loro non sanno che il Belgio è tra i responsabili del disastro che ha distrutto la loro città ed afflitto la loro esistenza; ignorano che gli F16 belgi sono stati, tra gli aerei dell’alleanza atlantica, i più attivi nei bombardamenti che hanno devastato le loro case.
Mi domando quindi quale sarebbe stata la loro reazione se fossi stato francese o britannico. Di certo meno amabile di quella degli abitanti di Bengasi: dappertutto lì sventolano le bandiere statunitensi, francesi, inglesi, italiane… E immensi manifesti incensano l’eroe della festa: Nicolas Sarkozy, il presidente francese.
Ma anche il modo in cui il loro capo, Muammar Gheddafi, è stato assassinato, da alcuni miliziani di Misurata. Il modo in cui è stato picchiato, colpito, insultato, con ferocia e furia, con godimento ed in una crisi di gioia, con tutta l’arroganza di questi vincitori senza pietà che si sono accaniti sul loro avversario, un dittatore che non aveva dato prova di molta sensibilità, certo, ma di cui non rimaneva più che un vecchio uomo, braccato, sfinito, sconvolto e solo, e che non sembrava comprendere perché tutto dovesse finire così, come ci si è potuti rendere conto visionando le immagini che alcuni ribelli avevano ripreso attraverso dei cellulari e che sono circolate dappertutto… ed anche a Sirte.
Mentre tramontava, il mio autista, che era di Misurata, mi ha spiegato che i miliziani stavano rientrando nelle loro caserme e che non bisognava rimanere lì, una volta calata la sera; che bisognava partire subito; che, durante la notte, i «terroristi» che si nascondono nelle rovine attaccano gli stranieri. Era anche molto agitato perché, mi ha detto, il nostro veicolo aveva una placca d’immatricolazione di Misurata e temeva un attacco nel corso delle due ore di strada che ci separavano. E’ per questo che approfittò della partenza per Tripoli di un convoglio di camion che trasportavano carri d’assalto, che lasciava Sirte con una scorta di pickup superarmati. Ci siamo uniti al convoglio; vicino a Misurata, l’autista, tranquillizzatosi, ha lasciato il convoglio ed ha accelerato fino a Tripoli.
L’ultimo obiettivo che mi ero fissato durante questo viaggio di osservazione era il sud-ovest libico (il sud della Tripolitania ed il vasto Fezzan), con l’intento di sapere se, domate Beni Ualid e Sirte, l’ovest resistesse ancora e, in caso contrario, quale fosse esattamente la situazione. Quindi ho lasciato Tripoli in direzione di Seba, Murzuk e, attraverso il Sahara, la frontiera del Niger. Prendendo i mezzi di locomozione locali, collettivi, cosa che mi permetteva di incontrare la popolazione della regione e d’informarmi da essa, ho attraversato le città ed i villaggi del sud-ovest, Al-Aziziyah, Qawasim, Gharyan, Mizdah, Mazuzah, Al-Qaryat, Ash-Shwareef, Al-Braq…
Se sussiste una certa tensione e se il rischio di essere attaccati sulla strada da parte di gruppi di combattenti ostili al CNT è molto reale (non si tratta di partigiani di Gheddafi, né di «controrivoluzionari», ma di gente che resiste all’invasione dei propri territori), nell’insieme la popolazione ha ripreso dappertutto le sue attività. Ma è molto chiaro che la parte a sud ha conosciuto lotte intense e che il Fezzan ha opposto una seria resistenza alle truppe ribelli, come testimoniano chiaramente le tracce di combattimenti visibili dappertutto.
Incapace di annientare da solo la resistenza senza temere delle pesanti perdite, il CNT, secondo le testimonianze raccolte ad Al-Braq e, più a sud, a Murzuk e ad Al-Qatrum, aveva chiesto aiuto alla NATO: alcuni giornalisti o osservatori occidentali non avevano rischiato di avventurarsi in questa regione molto a sud, le forze atlantiche non avevano esitato a liquidare questa resistenza con attacchi massivi. E’ in questa regione, ad Ubari, ad est di Murzuk, che Saif-al-Islam, il figlio maggiore di Gheddafi, predestinato a succedergli, aveva trovato rifugio fino alla sua cattura.
Sistematicamente, ho iniziato la conversazione coi miliziani, quelli che ci controllavano, ai check-point, e quelli che incontravamo nei turni e che pattugliavano su questa lunga strada. Il mio obiettivo era di sapere se si trattava di miliziani dei clan locali o, come a Sirte ed a Beni Ualid, di forze d’occupazione imposte dai ribelli.
Non era difficile avere informazioni: essendo l’unico occidentale presente nella regione, i miliziani, incuriositi d’incontrarmi, si sono sempre mostrati molto cordiali e volevano assolutamente che li fotografassi. La loro prima domanda era sulla mia nazionalità.
Potevo quindi facilmente fare loro la stessa domanda: nessuno dei miliziani incontrati era sul suo territorio; tutti, senza eccezioni, erano di Zliten, Misurata o Bengasi; qualcuno era berbero, molto riconoscibile dalla bandiera e dalla lettera «Z» del loro alfabeto, che simbolizza l’uomo libero, che i miliziani berberi dipingono sui loro veicoli… Non c’è traccia, per contro, dell’esercito regolare, rispetto al quale ci si chiede in cosa si sia trasformato una volta che il governo è stato rovesciato.
Ho avuto occasione di intrattenermi più a lungo con alcuni miliziani. La loro più grande preoccupazione è l’Algeria, il Niger ed il Ciad, da dove agiscono dei gruppi di “terroristi”, che lì trovano aiuto ed armi.
- Da dove vieni?
- Dal Belgio. E tu?
- Da Zliten. Cosa fai, qui, nel bel mezzo del deserto?
- Sono uno storico. Il mio campo di ricerca è il mondo arabo.
- Capisco! Hai visto cosa sta succedendo qui a causa di questa guerra.
- Intendi dire dopo questa “rivoluzione”..
- Sì, certo! La rivoluzione!
- E’ tutto finito, ora?
- Abbiamo il controllo del paese. Il problema è il controllo dei confini…
Fatto significativo: se si può vedere sventolare la bandiera del CNT dappertutto nel nord della Tripolitania (fatta eccezione per Beni Ualid e Sirte, dov’è quasi assente), i tre colori decorati dalla mezzaluna e dalla stella diventano molto più discreti nelle altre regioni della Libia occidentale e sono talvolta molto rari nelle oasi del Fezzan, e quasi invisibili come la bandiera verde della Grande «Jamahiriya» araba libica, popolare e socialista, oggi proscritta.
Il mio periplo verso il sud è terminato una notte, a Seba: l’ultimo mezzo di trasporto collettivo che avevo preso mi ha lasciato poco prima di mezzanotte nel centro di una città vandalizzata, i cui edifici pubblici ed alberghi, come mi ero reso subito conto, erano stati saccheggiati ed abbandonati. Durante gli eventi, il governatore di Seba aveva riunito presso di lui gli agenti delle forze dell’ordine, lasciando campo libero ai saccheggiatori; aveva imputato i disordini alla ribellione ed incoraggiato la popolazione a sostenere il governo ed a combattere i ribelli. In periferia, gruppi di resistenza sparavano ancora e dei proiettili traccianti striavano il cielo.
Sono quindi giunto in una caserma, anch’essa mitragliata e saccheggiata, dove un gruppo di giovani miliziani di uno dei clan di Seba aveva stabilito il suo quartier generale. Divertiti quanto stupiti di veder sbarcare un europeo sacco in spalla, questi miliziani mi han dato da mangiare e mi han prestato un materasso; ho potuto trascorrere la notte in loro compagnia, in sicurezza. Grazie al loro aiuto, ho solcato la città e la regione, fino al di là di Murzuk, più a sud, prima di decidere di rientrare a Tripoli e di tornare a Tunisi.
Quanto a Seba non è sotto occupazione. I combattimenti lì sono stati molto limitati, contrariamente a ciò che avevo pensato, in quanto si tratta di uno dei feudi della tribù di Kadhadfa, la tribù di Muammar Gheddafi. La città come s’è detto è servita da tappa per i mercenari che sono stati inviati come rinforzi per Gheddafi alle truppe governative locali, mercenari provenienti dal Ciad, dal Darfur e dal Mali. Senza aver sostenuto la rivolta, i clan di Seba lì non le si sono effettivamente tutti opposti; la maggior parte dei clan hanno colto l’occasione di sbarazzarsi dei mercenari stranieri ed hanno approfittato del crollo dello Stato per prendersi l’autonomia rispetto a Tripoli. Da questo punto di vista, hanno fatto eccezione nel Fezzan. Alcuni miliziani dei clan locali hanno anche appoggiato i ribelli contro i mercenari di Gheddafi, che non hanno resistito a lungo ed hanno tentato di raggiungere Tripoli. Quindi, la città presenta poche tracce di combattimento ed ora è sotto l’autorità dei propri miliziani. Sembra che sia stato concluso un accordo al riguardo col CNT; l’importanza economica di Seba, in effetti, è trascurabile: né petrolio, né gas, né acqua; Seba vive sostanzialmente del transito delle merci che attraversano il Sahara. La città quindi può ben godere di una relativa autonomia, cui Tripoli si adatterà.
Il decimo sito visitato è stato il centro del governatorato di Seba: mucchi di dossier erano ancora disseminati a terra; nei garage, ho verificato la presenza di rilevanti stock di armi e di munizioni che di fatto avevano concorso a far divampare l’incendio dopo gli attacchi. Ma gli elementi più interessanti li abbiamo trovati nel tredicesimo sito. Si trattava di vasti hangar appartenenti ad un’impresa civile che fabbricava plastiche. Secondo le testimonianze dei miei accompagnatori, il luogo era stato requisito durante il mese di settembre per acquartierare alcuni mercenari arrivati a Seba, sotto il comando di Abdulla Al-Sanoussi, il capo dei servizi d’informazione di Gheddafi: Al-Sanoussi aveva subito preso posizione nel paesino di Al-Satì, feudo del suo clan, a 65 chilometri da Seba. Aveva, poi, fatto dei movimenti verso Seba e ripreso il controllo di parte della città.
In uno degli hangar, abbiamo trovato delle casse di kalashnikov e di munizioni, materiale per contromisure aeree, ma anche uno stock di materiale usato per la manipolazione e l’impiego di armi chimiche, di gas da combattimento, come hanno confermato gli esperti militari ai quali ho sottoposto le mie fotografie: alcune tute complete, maschere e molti prodotti che servono a decontaminare ed a curare le persone colpite dai gas.
Dato che questo materiale non era normalmente stoccato in questo luogo, ma vi era stato portato in caso di evenienza perché servisse ai mercenari ingaggiati dal governo di Gheddafi, a fine settembre, quando l’esito della guerra sembrava sempre più chiaramente senza speranza per i partigiani del regime, questa scoperta lascia supporre che il governo libico ha avuto la ferma intenzione, in ultima istanza, di usare armi chimiche nel conflitto che l’opponeva alla ribellione ed alla NATO.
La Libia aveva certamente aderito all’Organizzazione per il Divieto delle Armi Chimiche (OIAC) nel 2004 ed aveva dichiarato i suoi stock di armi, ma aveva distrutto solo il 55% del suo potenziale quando è iniziata la ribellione: il governo libico disponeva ancora di undici tonnellate e mezzo di gas esplosivo, depositato nei due siti di Rabta, a sud di Tripoli, e di Ruwaga, nella regione di Al-Joufra, a nord-ovest di Seba…
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Così, i clan dell’ovest, eccetto quelli di Zliten, di Misurata e dei Berberi di Djebel Nafoussa, rifiutano ancora l’autorità del CNT e della NATO; mal sopportano l’occupazione di cui sono oggetto. Ad ovest, dunque, regna l’incertezza nelle zone che sono state sottomesse con la forza, e le nuove autorità cominciano ad avere molte difficoltà a far passare per «incidenti» gli attentati che lì si moltiplicano.
Il problema ormai è sapere se questa resistenza troverà in un futuro prossimo il modo di riprendere fiato oppure se i clan vinti, per rassegnazione e calcolo, abbandoneranno la battaglia e, senza più opporvisi, si adegueranno all’ordine imposto dal CNT, pronto a vendere una dittatura mascherata alle popolazioni di questi clan disuniti che non hanno alcuna idea del funzionamento di uno Stato democratico… La «nuova Libia».
Una nuova Libia, portata sulla fonte battesimale dai grandi Stati portatori di liberalismo economico, società petrolifere e Alleanza atlantica.
I libici l’hanno capito bene? Questa sì, è un’altra storia….
(Traduzione di Simona Bottoni)