di Gualberto Alvino
Mario Lunetta, Depistaggi. Fra critica e teoria, Roma, Onyx Editrice, 2010, pp. 190, € 16.
Indigna che un umanista del calibro di Mario Lunetta — maestro di più generazioni, ininterrottamente attivo da quasi mezzo secolo quale poeta, narratore e drammaturgo d’avanguardia, polemista passionario e implacabile, antologista contre-courant, saggista umoroso e poliedrico, performer, critico d’arte, letterario e della cultura, tradotto in varie lingue europee e americane, titolare d’una bibliografia altrettanto sterminata che di primissimo ordine — non sia ferocemente conteso, come accade a pletore d’ipervalutati mediocri destinati a squagliarsi nel Lete della Storia, dai titani della nostra editoria. Spetta dunque a un piccolo marchio, il benemerito Onyx di Franco Michetti, il vanto d’aggiudicarsi l’ultimo goloso lemma del multanime romano, stavolta in veste di critico e teorico, al solito agguerritissimo e senza rivali quanto a contezza della più viva attualità in tutti i distretti del territorio lato sensu estetico e comunicazionale: una silloge di studî, articoli e recensioni selezionati (con tale compatta organicità da parer non solo or ora concepiti ma stesi in un fiato) tra i numerosi apparsi dalla metà degli Ottanta ad oggi sui periodici «Almanacco Odradek», «Hortus Musicus», «Fermenti» e «Le reti di Dedalus», la rivista online del Sindacato Nazionale Scrittori, di cui il Nostro è stato per più mandati operoso e apprezzato presidente.
Arduo, se non impossibile — come sanno gli aficionados —, tracciare un resoconto esaustivo della scrittura saggistica lunettiana (affatto scevra da impressionismi e sproloquî alla deriva, ergo scabra ed esatta, verticale e tagliente sino alla crudeltà), tanta la densità concettuale e la dovizia argomentativa degl’infiniti depistaggi (rispetto alle presunte ‘verità’ rivelate: quale selvaggina, direbbe Contini, per un simile scalco!) che l’unico compendio affidabile non può non coincidere con la trascrizione integrale. Converrà, quindi, ridursi a segnare le direttrici basilari sulle quali fila — in senso tutt’altro che metaforico — il discorso critico, lasciando intero al lettore il piacere d’un voyage au bout non meno istruttivo che appassionante.
«Dopo la notevolissima produzione di teoria e di critica della letteratura cresciuta all’interno e a ridosso delle neoavanguardie — questa la spietata diagnosi di Lunetta —, già sul finire degli anni Settanta si stava aggrumando da noi quello che si chiamò riflusso, o deriva verso una Soggettività disancorata e irresponsabile, una rivalutazione dei Sentimenti e dei Contenuti […]. La reazione dell’industria della coscienza alla pratica dello sguardo strabico di coloro che operavano per un’altra sensibilità e un’altra intelligenza dei linguaggi stava assorbendo rapidamente lo choc delle Nuove Sintassi e delle Nuove Ipotesi, e apprestava la sua massiccia controffensiva. Gioco al ribasso. Esaltazione dell’ovvio. Celebrazione delle Belle Storie e della tranches di Cronaca. Pompaggio forte sui generi, con primazìa del ‘giallo’, del ‘criminal’, del ‘thriller’ per tutti i gusti. […] Di conseguenza: una messa in sospetto delle scritture complesse in favore della semplificazione e dell’elementarità. […] Ovviamente, a seguire, una svalutazione della riflessione critica e del lavoro teorico, in una sorta di ciò che potremmo definire “glaciazione del pathos”. Le elaborazioni mescidatorie dell’indiscriminanza postmoderna trovarono una sponda perfetta nella risposta sistemica nel fronte delle majors editoriali, strategicamente orientato a legittimare prodotti di facile digeribilità anziché testi dotati di spessore reale (scritture in versi consolatorie, romanzi simili a sceneggiature, linguaggi immediatamente comunicativi). Porte chiuse a tutto ciò che, sul piano della critica e della teoria come sul piano delle testualità ‘creative’, conservasse un tasso forte di interrogatività e di tensione critica; e all’opposto, porte spalancate alla produzione di genere e alla fiction meno problematica».
In un’epoca di superficialità e di sovrana «indifferenza alle differenze», in cui non solo il lettore è stato degradato da fruitore a utente, ma il testo da ordigno polisenso portatore di scompiglio a volgare prodotto e i libri — secondo la profezia di Vittorini — da mezzi di produzione a beni di consumo, è inevitabile che l’intrattenimento stravinca sullo spectaculum, il senso sul logos, la story sull’allegoria, il cosa sul modo, e il conflitto, come la contraddizione, sia totalmente cancellato dai rituali pacificatorî del marketing. Ecco, dunque, che la critica militante — intesa quale atto di plenaria responsabilità nei confronti tanto dell’autore e dell’opera che della comunità dei fruitori — viene fagocitata da una pseudocritica notarile affetta da immedicabile contenutismo, divenuta oramai elemento costitutivo e gregario della produzione industriale, finendo fatalmente per immedesimarsi con la promotion; sicché le arti si trovano «nella stretta di un’alternativa secca: adeguamento ai moduli dominanti o emarginazione, obbedienza all’ideologia unipensierante o espulsione dalla catena produttiva che alimenta il mercato».
La parola letteraria si mostra sempre più incapace d’interpretare il mondo dalla specola dell’immaginario, di leggere le sostanze attraverso le forme sollecitando la compartecipazione attiva del lettore-lavoratore-riscrittore; non è più in grado di porsi come questione con cui rapportarsi e cimentarsi anche in modo antagonistico, ma come parabola consolatoria da ascoltare passivamente, pacchetto di «riconoscibilità immediata, di finta chiarezza ‘democratica’, di rapida fruibilità per tutti».
Non si potrebbe dar quadro più desolante. «Eppure esistono — avverte Lunetta —, continuano ad esistere degli antidoti, purché non si abdichi all’impegno di cercarli e di servirsene. E possono chiamarsi, ancora, contro ogni logica della fiction che sottopone il consumatore al ricatto del contenutismo e dell’immedesimazione condita di vibrazioni emotive, Brecht e Benjamin, per esempio. L’allegoria e lo smascheramento, la responsabilità dell’intellegere e lo straniamento, il di-vertimento e la presa di distanza. Necessità, quindi, sempre, di un’imperterrita ermeneutica del sospetto. Una lettura e una critica materialistiche non possono non considerare la materialità del testo nel suo contesto storicamente determinato, e insieme l’autore come produttore all’interno del conflitto generale dei segni e dei rapporti di forza che lacerano la società».
E ancora: «La letteratura è un lavoro. La poesia è un lavoro. […] Io credo che da qui, da questa parola storicamente sottoposta a ambiguità senza fine, sia necessario ripartire: per rivendicarne il senso laico e creativo, il peso di fatica che comporta ma anche il gusto del fare intelligente, non alienato, non ridotto a pura prestazione subalterna, a performance senza vera identità e alimento collettivo, persa nell’infinita discarica dello spreco mercificato di cui il megaconsumo capitalistico del nostro tempo ha bisogno per sopravvivere a se stesso, alla propria natura mortuaria».
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