Letteratura e prigionia: dal Marchese De Sade a Oscar Wilde

Creato il 10 maggio 2013 da Wsf

L’arte in ogni suo aspetto, intesa come pura forma di comunicazione umana, non è solo un’espressione di bellezza o della sua ricerca; è anche sofferenza, paura, drammi irrisolti, malinconia. È un percorso spirituale che non si ferma alla conoscenza della tecnica, o all’allenamento, o al talento. E non può concedersi pause. Esistono molti tipi di dolore, tutti molto diversi e impossibili da mettere sullo stesso piano, così come lo sono gli artisti e le loro forme di espressione.

In una società tesa verso la standardizzazione degli uomini e le cose, un simile percorso è quasi un affronto; ma, al tempo stesso, è proprio la sua volontà livellatrice a spingere l’artista a fare il suo percorso, rendendosi così necessaria al suo svolgimento, facendosi parte attiva nella sofferenza dell’artista. È “nemica”, sì, e proprio per questo indispensabile.

Riflettendo sulla società nemica e, per contrasto, creatrice d’arte, si possono mettere a confronto due esempi estremi di soppressione socialmente approvata e delle sue conseguenze: l’esperienza in carcere del Marchese Donatienne Alphonse François De Sade e di Oscar Wilde, condannati rispettivamente per libertinaggio e sodomia, raccontata dagli stessi autori in forma di lettera.

D.A.F. De Sade a Vincennes

“Quando una detenzione deve essere lunga come la mia, non è un’autentica infamia accrescerne l’orrore con tutto ciò che piace a vostra madre di inventare per moltiplicare i miei tormenti? Non basta esser privati di ogni cosa che rende la vita dolce e piacevole, non poter neppure respirare l’aria del cielo, vedere quotidianamente ogni nostro desiderio spezzarsi contro quattro mura, non basta passare giorni dopo giorni in tutto simili a quelli che ci aspettano quando saremo nel sepolcro? Questo orrendo supplizio non basta, secondo quella creatura terribile: bisogna ancora aggravarlo con tutto quello che è possibile immaginare per raddoppiarne l’orrore. Solamente un mostro, confessatelo, può essere capace di spingere ad un tale eccesso la sua vendetta…”

[Lettera di De Sade alla moglie, 20 febbraio 1781]

Vittima di un piano diabolico della suocera, la “presidentessa” Madame de Montreuil, De Sade finì nel carcere di Vincennes, dove avrebbe passato molti anni della sua vita, e in cui avrebbe visto la luce il Marchese conosciuto ai più. Questa trasformazione umana e spirituale è visibile e chiara nelle lettere scritte dal Marchese in quegli anni, indirizzate principalmente alla moglie e alla suocera. L’ingiustizia della propria condanna, l’insofferenza verso la propria vita da detenuto, i continui pensieri tormentosi sull’infelicità della propria condizione formarono il nuovo De Sade, sia a livello umano che letterario e filosofico.

Il bene per me costituisce uno stato di fastidio e malessere, per cui non domando di meglio che di rimanere immerso nel mio brago, in cui mi beo. […] Si presentano mille occasioni in cui tollerare un male può evitare un male peggiore: ad esempio, chissà quale pensata sublime credete di aver fatto riducendomi alla più feroce astinenza sul peccato della carne; ebbene, avete sbagliato, raggiungendo l’unico scopo di riscaldarmi il cervello e di spingermi a dar forma a certi fantasmi che un giorno dovrò realizzare.”

[Lettera di De Sade alla moglie, luglio 1783]

De Sade e i suoi “fantasmi”

Fu in questi anni di detenzione, diviso fra i sentimenti d’amore per la moglie e l’odio feroce per la suocera, che De Sade completò “Dialogo fra un prete e un moribondo” e la prima stesura sia delle “120 giornate di Sodoma” che di “Justine”.

Seguendo il corso delle sue lettere, troviamo i passi che lo hanno condotto lungo il cammino della sua battaglia contro l’uomo in ogni sua forma esistente e ai temi che avrebbe ripreso appunto nelle sue opere: nel Dialogo ritroviamo l’estremo contrasto fra il libertino morente e il prete, che possiamo identificare rispettivamente come De Sade e la sua visione dell’uomo in genere: ottuso e facilmente corruttibile.

Nelle “120 giornate”, invece, ritroviamo il tema della reclusione: quella volontaria per i quattro libertini della storia, quattro dei “fantasmi” citati nella lettera di luglio del 1783 – liberi di allontanarsi dalla società per dedicarsi alla propria lascivia, determinati a porre un limite eterno ai contatti esterni – e quella forzata dei servi, sacrifici da offrire alla libertà dei potenti.

È chiaro il desiderio di invertire la situazione che il Marchese sta subendo: dove lui è vittima di un complotto, calunniato, imprigionato e messo a tacere, nel romanzo è signore e padrone incontrastato, diviso nei volti dei protagonisti; dove nella vita vita vera i suoi persecutori, gli altri, sono liberi di decidere della sua vita, nel romanzo non hanno potere neanche sulla propria.

La prigione ha, in un certo senso, “liberato” il De Sade letterario. Leggendo le sue lunghe lettere dalla prigione, chiara testimonianza del percorso spirituale che questa gli ha imposto, è possibile vedere il “semplice” aristocratico libertino trasformarsi nel Filosofo De Sade, l’infaticabile narratore della perversione, teorico della distruzione, conoscitore del buio profondo che agita l’animo umano.

Oscar Wilde nel carcere di Reading

Il mio solo errore fu di limitarmi esclusivamente agli alberi del lato soleggiato del giardino e trascurare gli altri del lato ombroso e triste.

Insuccessi, infamia, povertà, dolore, disperazione, sofferenza, le lacrime persino, le parole spezzate che mormorano le labbra di chi soffre, il rimorso che costringe a camminare sui rovi, la coscienza che condanna, l’umiliarsi che avvilisce, la miseria che ricopre i suoi capelli di cenere, l’angoscia che si avvolge nell’abito di sacco e versa fiele nel suo bicchiere: tutto ciò mi spaventava. E così come avevo deciso di non conoscerne nessuna, fui poi costretto ad assaporarle tutte, a una ad una, a nutrirmene, a non avere altro cibo all’infuori di esse per un’intera stagione della mia vita.

Neppure per un attimo rimpiango di aver vissuto per il piacere. Ho vissuto per il piacere fino in fondo, poiché tutto ciò che si compie lo si dovrebbe compiere fino in fondo. Non ci fu piacere che non sperimentai. Gettai in una coppa di vino la perla della mia anima. Scesi il sentiero fiorito al suono dei flauti. Vivevo nutrendomi di miele. Ma continuare a vivere la stessa vita sarebbe stato un errore, perché mi avrebbe limitato. Dovevo andare oltre.

Anche l’altra metà del giardino aveva dei segreti per me.

[Lettera di Oscar Wilde ad Alfred Douglas, 1897]

In una situazione curiosamente simile sotto certi aspetti si ritrovò Oscar Wilde, che nel carcere di Reading compose “La ballata del carcere di Reading” e una delle sue opere più famose, il “De Profundis”: un’altra lunga lettera, altra testimonianze dal vivo dei cambiamenti interiori dell’artista in condizioni di prigionia, in cui si narra di un’altra cocente ingiustizia e di una trappola tesa ai danni dell’artista stesso. Trappola tesa, nel caso di Wilde, dal padre dell’amico Alfred Douglas, che lo avrebbe fatto arrestare per sodomia.

Oscar Wilde ed Alfred Douglas

A differenza di De Sade, però, la prigionia arrestò quasi del tutto la produzione letteraria di Wilde, che morì in miseria tre anni dopo la scarcerazione. Le sole due opere sopracitate che hanno visto la luce in quegli anni sono considerate il capolavoro ultimo di Wilde, le sue opere più ricche e complete, piene di tragica consapevolezza del sé.

Non ci è dato sapere se, vivendo più a lungo e scampando alla miseria, Wilde avrebbe continuato a scrivere o se la prigione gli avesse dato o tolto troppo per continuare a scrivere. Non a caso, forse, a poco meno di un anno dalla morte, disse: “I wrote when I did not know life; now that I do know the meaning of life, I have no more to write.” [Scrivevo quando non conoscevo la vita; ora che ne conosco il significato, non ho più niente da scrivere]. Il quasi assoluto silenzio letterario di Wilde può essere interpretato in molti modi diversi, quasi sicuramente tutti sbagliati; ma si può apprendere molto dalle lettere raccolte nel De Profundis, in particolare nell’ultima parte, dove Wilde saluta Douglas con una rinnovata consapevolezza:

Ciò che mi si spiega davanti a me ora, è il mio passato. Devo riuscire a guardarlo con occhi diversi, devo costringere anche il mondo, devo costringere anche Dio a farlo. Ma ciò non può avvenire se ignoro il mio passato, o lo riduco, o lo lodo, oppure lo rinnego. Potrà avvenire solo se lo accetterò come parte inevitabile dell’evoluzione della mia vita e del mio carattere: chinando il capo di fronte a tutto quanto ho patito. Ma come io sia distante dalla vera essenza dell’anima te lo dimostrerà assai chiaramente questa lettera, nei suoi umori mutevoli e incerti, nel suo sdegno e nella sua amarezza, nelle sue aspirazioni e nella sua incapacità a realizzarle. Non dimenticare in quale terribile scuola io sto svolgendo questo compito.

E, per quanto incompleto, imperfetto io sia, tuttavia da me puoi avere ancora molto da imparare. Venisti da me per conoscere i piaceri della vita e i piaceri dell’arte. Forse io sono destinato a insegnarti una cosa assai più splendida: il significato del dolore, la sua bellezza.”

[Lettera di Oscar Wilde ad Alfred Douglas, 1897]

Daniela Montella

Ps: mi si può obiettare che quella di De Sade non è arte; l’uso della parola, in questo caso, può considerarsi sconsiderato. Tengo quindi a precisare che, per me, De Sade è un filosofo; e, per me, la filosofia è una forma d’arte.

Le citazioni del Marchese de Sade sono tratte da “Lettere di Vincennes e dalla Bastiglia”, ed. Classici dell’Eros, a cura di Luigi Baccolo
Le citazioni di Oscar Wilde sono tratte da “De Profundis”


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