lettere dal fronte

Da Bellocks
Sull’altipiano di Asiago c’ho lasciato appena una lettera, la migliore. C’ho lavorato tutto quest’inverno e alla fine niente di che. Niente di che per un ufficiale di complemento, niente di che nelle parole che ti scrivo e non c’è più un grumo di verso da dedicarti. La mamma laggiù sta bene, lo so, e anche il babbo lavora i campi con la tigna del vecio. Vecio qui da noi vuol dire maestro, e spero un domani rincasare dal fronte per potertelo ancora gridare. Invecchiare nei campi.
Il silenzio che c’è dato qui in sorte somiglia al legno messo sul fuoco, il silenzio crepita, il silenzio è un bagliore un attimo prima del botto. Sapessi amore, che genere di spettacoli ci tocca qui sopportare. L’altro giorno la capra ci è scappata di mano, la capra gridava come una gatta in calore quando l’abbiamo abbattuta. I ragazzi del 6° la stavano ancora pulendo quando ho avuto uno scatto improvviso e ho scritto il tuo nome sulla roccia d’ingresso del 4° Brigata Sassari. Se un domani verrai quassù, se un domani il granito avrà avuto ancora ragione del tempo, arriva fino alle pendici dello Zebio e metti un fiore sulla trincea di comando. A volte penso alla morte, è vero. A volte la vita va così in fretta che è davvero difficile farsene una ragione. Tu non fartene un cruccio.
Qui da noi non c’è mai abbastanza inchiostro per le parole migliori, le parole migliori sono roba da borghesi e qui mi tocca troppo spesso ripiegare, lavorare di picchetto. Io non lo so se le parole migliori stanno dalla mia parte o magari appiccicate sul reticolato di un altro modo di vedere le cose. Io so solo che il mio nemico non lo comprendo quando gli pianto la baionetta nel petto e grida forte e grida a lungo e grida “Nur!”. Da quassù le cose le vedi per quello che sono e non c’è mai abbastanza tempo per affezionarcisi troppo. La licenza breve certo, ma poi tanti giorni che ti sfondano l’anima e ti fanno la vita ogni giorno più muta. Domani c’è l’attacco al canalone nord-ovest di Campigoletti, qui facciamo tutti finta di niente.
Vieni, vieni quassù amore mio, vieni a vedere la primavera quando la guerra ti lascerà il passo, vieni quassù e fermati un attimo sulla Lunetta dell’Ortigara. Tra i monti Zebio e il Mosciagh, tra la Caldiera e il Portule, il XXII Corpo d’armata cerca di sfondare le linee nemiche. Vieni quassù e stringimi forte la mano.E poi tu mamma, sapessi che razza di onere ci tocca qui sopportare. La morosa lasciata al paese, la bella che ci aspetta, la più bella di tutte che sei tu che non la smetti mai d’informarti al comando. La paura sta tutta in questo volarsene in aria in un battito di ciglia, il frignare assordante della 20mm, lo squarcio metallico delle granate a due passi dalla trincea. La paura sono gli occhi che scavano la fossa nei giorni comandati, l’ordine che viene dall’alto, l’eventualità che domani sarà finalmente il mio turno.Sapessi mamma, gli occhi azzurri del sottoufficiale di complemento. Oggi mi parlava del figlioletto che a dodici mesi ha imparato a dire... “mamma”. Mamma è la prima e l’ultima parola di un soldato in guerra, mamma è un sostantivo rubato a una guerra.
Domani ritorno e avverti la Nora di prepararmi un bel bagno. Un bagno è quel che ci vuole per scrollarsi di dosso una guerra. E’ il 10 di giugno del 1917 e il sottoufficiale Carboni ha ordinato l’attacco. Oggi ci tocca la lunetta di monte Zebio e speriamo di non fare brutta figura. Io ce la metto proprio tutta mamma, io ho gli occhi lucidi e già il fucile puntato.