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Lettere dal Laos 8: Don Kho, l'isola fuori dal tempo.

Creato il 25 febbraio 2012 da Enricobo2
Oggi risaliamo un poco il Mekong a nord di Pakse. Il fiume è imponente e maestoso ed ha scavato un letto profondo in un alveo che ora, che siamo quasi al culmine della stagione secca, lascia scoperte alte e scoscese scarpate lungo le rive dove si possono indovinare i livelli a cui potrà arrivare l'acqua nelle prossime piene. Dopo pochi chilometri il fiume è diviso in due parti, quasi fossero due diversi corsi d'acqua, da una grande isola, quasi un promontorio di terra rossa coperta di verde, di cui non indovini la fine. Una piccola lancia porta due o tre persone per volta su una lingua di sabbia di fronte all'imbarcadero. Per risalire l'erta sono stati intagliati dei gradoni grossolani che l'uso ha gradualmente arrotondato, rendendoli scivolosi. Arrivi sbuffando in cima alla salita. Poche capanne su palafitte, addensate intorno al sentiero che percorre il perimetro dell'isola. Sotto ognuna di esse un telaio e una donna al lavoro. Quando non si lavora nelle risaie del centro dell'isola, ogni donna fila, tinge, tesse. In ogni dove, appese, trionfano i colori stupendi dei tessuti più belli del Laos. Guardi il lavoro ritmato, l'andirivieni della navetta, il complesso movimento dei piedi che sposta le fasce di ordito per consentire il formarsi dei disegni più complessi ed ecco che nasce davanti a te una sciarpa sfolgorante di ori, ocre, aranci e rossi oppure un sarong dal fondo scuro su cui spicca la trama complicata di ornamenti minuti e ricercati, ognuno unico, personale, speciale. 
Non ci sono rumori nell'ombra fresca, tra i palmeti e i grandi alberi le cui radici trattengono l'argilla rossa dal franare nel fiume. Solo cinguettii di uccelli colorati nascosti tra le frasche, becchettare di galline e qualche grufolio di maiali neri, grassi, dai musi rincagnati che si muovono tra le capanne cercando cibo, anche loro però, tranquilli e non affannati. Rumore di grilli, gracidare di rane, niente altro ad accompagnare il tac tac delle bacchette dei telai, ma anche questo così lieve da non turbare i corpi stesi sulle amache tra gli alberi. Neanche noi vogliamo turbare la pace del ragazzo che dorme alacremente all'ombra di un banano, vicino ad una capanna su cui è appoggiato un cartello con l'orgogliosa scritta Turist office. Tanto basta camminare e ad ogni orto, dietro ogni basso steccato di bambù, leggi un sorriso, un invito. Un piccolo tempio alza il suo stupa dorato tra le palme. 
Tre monaci bambini giocano accanto alla torre del tamburo, non riescono a stare seri come competerebbe loro, di fronte agli stranieri, ma sorridono, ammiccano, fanno cucù dietro la campana, corrono a nascondersi nella sala di preghiera. Sotto un portico una gran barca ornata ancora di rami e fiori appena rinsecchiti di una festa ormai trascorsa. Sull'angolo del muricciolo di cinta l'immenso albero della vita a guardia e tutela del tempio stesso. Ci fermiamo in un gazebo sospeso sul fiume che scorre piano anche lui per non turbare tutta questa pace. Nella casa, un televisore cinese trasmette un incontro di thai boxe. Il nonno assiste compunto commentando i colpi più riusciti. Una donna ci prepara uno zuppone di noodles dove il pizzicore dello zenzero ti cuoce in un attimo le papille e attenua anche questo ultimo senso. Per il bagno si passa nella camera da letto dove un bimbo dorme assorto sotto una coperta rossa. Restiamo a lungo a guardare il fiume color ocra scuro. Lo guardiamo a lungo. Lo guardiamo scorrere.
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