Lettere tra Mahatma Gandhi e Leo Tolstoy I
Creato il 18 luglio 2015 da Marvigar4
Westminster Place Hotel
4, Victoria Street,
Londra, S.W.
1 Ottobre 1909.
Al Conte Leo Tolstoy
Signore,
Mi sono preso la libertà di attirare la sua attenzione su ciò che è successo in Transvaal (Sud Africa) per quasi tre anni.
In quella colonia c’è una popolazione di indiani britannici di circa 13.000 persone. Questi indiani hanno subito per parecchi anni varie limitazioni di natura legale. Il pregiudizio nei confronti del colore della pelle e, in qualche aspetto, degli asiatici è forte in quella colonia. È in gran parte dovuto, per quanto concerne gli asiatici, a gelosia di natura commerciale. Il culmine è stato raggiunto tre anni fa, con una legge che io e molti altri abbiamo considerato degradante e calcolata per disumanizzare coloro a cui era applicabile. Mi accorsi che la sottomissione a una legge di questo tenore era incompatibile con lo spirito della vera religione. Io e alcuni miei amici siamo stati e ancora siamo fermi sostenitori della dottrina della non resistenza al male. Ho avuto anche il privilegio di studiare i suoi scritti, che hanno lasciato una profonda impressione nella mia mente. Gli indiani britannici, di fronte ai quali la nostra posizione è stata pienamente spiegata, accettarono il suggerimento che non avremmo dovuto sottometterci alla legge, ma subire la carcerazione, o qualsiasi altra sanzione che la legge può imporre per la sua violazione. Il risultato è stato che quasi la metà della popolazione indiana, incapace di sopportare l’impeto della lotta e le difficoltà del carcere, si è ritirata dal Transvaal piuttosto che sottomettersi alla legge che hanno considerato degradante. L’altra metà, quasi 2.500, si sono lasciati imprigionare per motivi di coscienza, alcuni ben cinque volte. Le detenzioni variavano da quattro giorni a sei mesi, nella maggioranza dei casi includevano i lavori forzati. Molti sono stati rovinati finanziariamente. Attualmente ci sono circa cento resistenti passivi nelle carceri del Transvaal.
Alcuni di questi erano uomini poverissimi, che si guadagnavano il proprio sostentamento giorno dopo giorno. Il risultato è stato che le loro mogli e i figli hanno dovuto essere sostenuti da contributi pubblici, in gran parte raccolti anche dai resistenti passivi. Questo ha messo a dura prova gli indiani britannici, ma è mia opinione che per l’occasione si siano risollevati. La lotta continua ancora e non si sa quando avrà fine. Tuttavia, alcuni di noi hanno almeno constatato più chiaramente questo fatto, cioè che la resistenza passiva potrà avere successo là dove la forza bruta deve fallire. Notiamo inoltre che nella misura in cui la lotta si è prolungata, in gran parte è stato dovuto alla nostra debolezza, e da qui a una credenza che si è ingenerata nella mente del Governo secondo cui noi non saremmo stati in grado di sostenere le continue sofferenze.
Insieme a un amico sono giunto qui per incontrare le autorità imperiali e porre di fronte a loro la nostra posizione, al fine di ottenere un risarcimento. I resistenti passivi hanno compreso che non dovrebbero avere niente a che fare con le suppliche al Governo, che invece la delegazione è giunta su istanza dei membri più deboli della comunità e che rappresenta di conseguenza la loro debolezza più che la loro forza. Ma, nel corso delle mie osservazioni attuali, mi sono reso conto che se fosse fatto l’invito di un concorso generale per un saggio sull’etica e l’efficacia della resistenza passiva, esso diffonderebbe il movimento e farebbe riflettere la gente. Un amico ha sollevato il problema della moralità connesso al concorso proposto. Lui pensa che un tale invito sarebbe incompatibile con il vero spirito della resistenza passiva e che equivarrebbe alla compravendita delle opinioni. Posso chiederle di usarmi la gentilezza di esprimere la sua opinione sul tema della moralità? E se lei ritiene che non c’è niente di male nel chiedere dei contributi, la pregherei anche di fornirmi i nomi di coloro a cui dovrei rivolgermi espressamente per scrivere sull’argomento.
C’è un’altra cosa, in riferimento alla quale mi permetto di abusare del suo tempo. Una copia della sua lettera a un Indu sui presenti disordini in India mi è stata consegnata da un amico. Sul frontespizio le sue idee sembrano ritratte. È intenzione del mio amico di far stampare e distribuire, a sue spese, 20.000 copie e anche di tradurle. Tuttavia non siamo stati in grado di assicurarci l’originale e non ci sentiamo legittimati a stamparlo finché non saremo sicuri dell’accuratezza della copia e del fatto che è la sua lettera. Mi permetto di allegare qui una copia della copia, e lo considererei un favore se lei gentilmente mi facesse sapere se si tratta della sua lettera, se è una copia precisa e se approva la sua pubblicazione nei termini espressi sopra. Se vorrà aggiungere qualcosa in più alla lettera, la prego, faccia pure. Vorrei inoltre permettermi di darle un consiglio. Nel paragrafo conclusivo lei sembra dissuadere il lettore da una fede nella reincarnazione. Io non so se (se non è impertinente da parte mia menzionare questo) lei abbia studiato particolarmente la questione.
La reincarnazione o la trasmigrazione delle anime è una credenza cara a milioni di persone in India, di sicuro anche in Cina. In accordo con la maggioranza, si potrebbe quasi affermare che è più una questione di esperienza che non di consenso accademico. Essa spiega ragionevolmente i molti misteri della vita. È stata motivo di conforto per alcuni dei resistenti passivi che hanno frequentato le prigioni del Transvaal. Il mio scopo nello scrivere questo non è di convincerla della verità della dottrina, ma di chiederle se per favore vorrà togliere la parola “reincarnazione” dalle altre cose di cui lei ha dissuaso il lettore. Nella lettera in questione lei ha fatto ampie citazioni da Krishna e dato dei riferimenti ai passaggi. Le sarei grato se mi desse il titolo del libro dal quale le citazione sono state tratte.
Io l’ho stancata con questa lettera. Sono consapevole del fatto che coloro che la onorano e si sforzano di seguirla non hanno il diritto di abusare del suo tempo, ma, anzi, è loro dovere astenersi dal darle fastidio, per quanto possibile. Comunque, io, che sono per lei un illustre sconosciuto, mi sono preso la libertà di inviarle questa comunicazione nell’interesse della verità e al fine di avere il suo consiglio sui problemi, della cui soluzione lei ha fatto il lavoro di una vita.
Con i miei ossequi, resto,
Il suo servo obbediente,
M.K. Gandhi
traduzione di Marco Vignolo Gargini
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