“NON SI PUÒ MAI SENTIRE IL FIGLIO, È LA REGOLA: SE NO NON SI STACCANO.”
Mi dicono che vanno ad Andora. Non si sa quando, cinque giorni con l’asilo. Cinque giorni, cinque notti, cinque anni.
Non è obbligatorio, è una proposta di quelle che chiamano Scuola-Natura. Mi lanciano la notiziola quattro giorni fa, così, sulla soglia della classe, poi viene ripresa nell’assemblea che ho mancato. E adesso mi arriva un foglio: devo decidere entro stasera se “aderisco”, se mando Sarah.
Speravo di non dover scegliere.
Patrick andò a Malcesine, sul lago di Garda.
Gli bastò un pullman, ciao ciao, manine paffute ancora coi buchetti sulle nocche, posti a sedere in alto sull’eccitazione, un briciolo di paura ammutolita e poi via, si va, si dimentica.
Un volto buio, appena appena, la sera, tra spazzolini e baci della buonanotte che fanno come buchi di grandine sui tetti: manca il tocco della mamma, del papà. Queste bocche non bastano. Ma tanto poi si addormentavano tutti, un’intera camerata a mollo in sogni spaziali, fatine e dinosauri. E il giorno se li scolava come un ubriaco al collo di bottiglia: un bimbo dietro l’altro, file indiane di nuove avventure che scalzano vecchie abitudini. Canzoni in coro, giochi, pioggia e sole, truppe di vite annodate da mani obbedienti.
Io invece stridevo sul lastricato dei giorni: la vera solitudine è la lontananza di un figlio. Non aveva neanche 5 anni, mi aggrappavo a brevi sms circolari con cui c’incartavamo sempre: “Oggi gita in battello a Limone. Lo dici tu a Gianna?” “No, è Gianna che l’ha detto a me.” Sapevi tutto due volte. Oppure per niente.
Poi arrivava il messaggio sacro: “Ti chiamiamo oggi.”
Mi avevano detto che era inutile cercare mio figlio, che ci avrebbero dato notizia, spesso, che ci avrebbero chiamato loro e avrei parlato con lui. Mi era sembrato logico.
Poi viene quella maestra solitaria del tuo istinto di madre, e manda la logica a puttane.
Allora stavo lì dove l’orologio batte le sue lancette, aspettavo. E finalmente suonava il mio piccolo Nokia, un telefonino improvvisamente diventato un megafono per le emozioni.
Due parole della maestra, te lo passo, eccolo: Patrick rispondeva appena, si sentiva che era felice, ma quella lo inseguiva, dai che c’è al funivia!, prende il telefono, ciao. Silenzio.
Riaggancio e piango. Sembrava dessi fastidio. Mi sento una madre coi sequestratori.
Patrick mi è mancato ogni secondo. Avevo un bel dire, un facile giudicare quelle madri apprensive che se li erano tenuti a casa: “Io no, il mio non lo mando.”
Coi giorni fu chiaro.
Quelle telefonate strappate, quei lembi di conversazioni sfilacciati. Sapevo che lui stava bene, ma non mi bastava.
“Ma sì, non te l’avevano detto? In questo genere di vacanze non si può mai sentire il figlio, è la regola: se no non si staccano. Sei già fortunata che ci hai parlato una volta.” Una madre-collega mi conforta. Io invece m’incazzo il doppio: potevano dirmelo, dirmelo prima. Che questa è la “regola”. Avrei giocato lo stesso, forse. Forse avrei perso meno.
Sabato mattina eravamo tutti là, affollavamo quel marciapiede troppo piccolo.
“Lo prendo io, lo prendo io!”
Mathias acconsente, sa che Patrick preferirebbe lui, ma dei due sono io quella più fragile, sono carta velina e ora mi impacchetto quel mio angelo azzurro come scende dal pullman. E finalmente potrò ammettere di aver sofferto.
Patrick arriva, lo scorgo che è ancora nel corridoio con la moquette. Mi emoziono perfino adesso, solo a ricordare.
Fu bello. Fu incredibile. Aveva quelle due fossette che gli vengono quando fatica a trattenere l’emozione. Le fossette del pudore emotivo. Gli occhi erano vispi, il trionfo di una luce che riconoscevo non aver mai visto tale: “Sei felice per com’è andata, o sei felice che sei tornato?”
“Tutt’e due.”
E restammo per un po’ così, attraversai la strada tenendomelo in braccio. Poi rimanemmo al parco, a guardare quella sua faccia nuova che si perdeva tra gli scivoli, che riconquistava i nostri soliti luoghi, e ogni tanto s’interrompeva per venire a gioire di averci di nuovo.
Fu lì che pensai: forse è valsa la pena.
Ma intanto avevo già deciso: Sarah non la manderò.
Cinque giorni e una mattina. Ti godi la prima mezza giornata. Poi inizi a consumarti. Come le candele. Devi pensare a lei, a quei suoi boccoli biondi, immaginarli animarsi nelle corse lungo il mare. Non pensare a quando la sera rivestono un cuscino.
Puoi fare finta di essere figa e forte, oppure puoi sapere che soffrirai e forse anche lei, ma credere che valga la pena.
Perché se piangi a un saggio, un coro stonato e un mandolino, tu dimmi come puoi stare ritta in piedi e salda, davanti a una corriera che s’ingoia cinque giorni della tua bambina.