Anche quest’estate le vacanze sono finite e, come la scorsa, le mie letture balneari si son divise fra fumetti di vario genere e romanzi noir. Questi ultimi mi son stati consigliati dal libraio della località di villeggiatura in cui passo qualche settimana di relax. E’ un ragazzo che legge quello che vende, qualità ormai non tanto comune fra i professionisti del libro, uno di quei librai vecchio stile con cui parleresti per ore su scrittori, romanzi e generi preferiti. A partire dall’estate scorsa mi son completamente affidato ai suoi consigli in materia di romanzi noir di nuova pubblicazione e, visto il successo, ho bissato anche quest’anno. Si tratta complessivamente di cinque opere, (quasi) tutte di autori americani, (quasi) tutti viventi.
La prima che lessi l’anno scorso fu folgorante: il genere classico del thriller di mafia reinventato completamente e ambientato in un ospedale. Il protagonista di Vedi di non morire è infatti un medico (come anche lo scrittore Josh Bazell, specializzando in psichiatria) ex killer mafioso dalla nuova identità protetta dal governo, a cui capita di dover assistere, nel reparto di chirurgia d’urgenza dell’ospedale in cui lavora, una sua vecchia conoscenza della malavita, che lo ricatapulterà, suo malgrado, nel mondo del crimine che pensava di essersi lasciato alle spalle. Il ritmo è sostenuto ed esuberante, si alterna comicità e tragedia, il tutto condito con particolari precisissimi di medicina e chirurgia, molto azzeccati nel contesto dello sviluppo narrativo.
Il secondo romanzo è di tenore completamente diverso: una storia dal ritmo superficiale sommesso e tranquillo, ma carico di una tensione profonda che fa nascere nel lettore una angoscia crescente. La protagonista di Abbiamo sempre vissuto nel castello della scomparsa Shirley Jackson è una diciottenne che ci descrive la vita serena che conduce insieme alla sorella ed allo zio invalido in una grande villa di campagna. E’ un’esistenza fatta di piccoli gesti quotidiani: il the, la cucina, la cura del giardino che hanno luogo in ambiente solare, immerso nel verde. Ma il lettore avverte che c’è qualcosa che non va: l’ostilità manifesta degli abitanti del vicino villaggio, il fatto che tutti gli altri componenti della famiglia sono morti avvelenati durante un pasto tenuto nella villa, cui sopravvissero solo gli attuali dimoranti. Si intuisce che c’è un terribile ed inconfessabile segreto, che il Male alberga anche in questo quadretto delizioso di provincia.
Shirley Jackson, che scrisse questo romanzo nel 1962, è considerata una delle capostipiti del genere americano del terrore, grazie anche ai racconti La lotteria e soprattutto a L’incubo di Hill House, che ho letto successivamente lo scorso inverno. La seconda opera, in particolare, è diventata il riferimento di ogni narratore o sceneggiatore che abbia voluto cimentarsi con il tema della casa infestata.
L’ultimo romanzo che lessi la scorsa estate fu il più travolgente, per il tema affrontato, per lo scavo psicologico dei protagonisti, per la coralità dei personaggi, per l’epica della storia: Il potere del cane di Don Winslow. Lo scenario è il Messico patria del narcotraffico e gli Stati Uniti destinatari e nemici dello stesso. C’è il poliziotto che sacrifica la propria vita nella lotta al traffico internazionale di droga, c’è la famiglia messicana di narcos, così potente da controllare economicamente e politicamente un’intera nazione, c’è una prostituta americana d’alto bordo che viene coinvolta pericolosamente nelle vicende criminali, c’è un giovane killer irlandese della Grande Mela assoldato dalla mafia, c’è infine un sacerdote messicano potente ma dedito all’aiuto dei più deboli. Tutti questi personaggi sono i protagonisti di una storia avvincente piena di intrecci, di trame che coinvolgono anche la politica americana e che ti fanno capire molto della storia attuale e recente del nord e centro america in quanto a lotta al narcotraffico, rapporti tra stati, poteri politici invischiati con quelli criminali, servizi segreti collusi con la mafia. Un pessimismo di fondo aleggia lungo tutte le 714 pagine del romanzo: non c’è perdono o possibilità di fuga, il Male assoluto riesce sempre a fare breccia nel cuore degli uomini, quell’antica crudeltà umana chiamata il potere del cane. Don Winslow ci fa un regalo potente e doloroso: un affresco politico, sociale, economico e umano di una faccia ben precisa, quella del narcotraffico, ma universale del crimine. Sull’onda di questo romanzo, lo scorso inverno lessi dello stesso autore L’inverno di Frankie Machine mentre, sempre di Winslow, ho appena acquistato La pattuglia all’alba.
Veniamo a quest’estate. Il libraio mi ha invitato a cimentarmi con quella che lui ha definito una chicca del brivido: Fredda è la notte di Carlene Thompson. Si tratta di un thriller ad alta suspense, tanto che, giunto all’ultimo capitolo durante una serata piovosa e un po’ fredda, in cui mi misi a letto rimuginando su chi poteva essere il colpevole dei delitti, balzai in piedi spaventato credendo di aver sentito dei colpi battuti alla porta d’ingresso, tale era la tensione provocata dai miei pensieri. L’ambientazione è un freddo novembre di incipiente inverno in un piccolo centro della West Virginia, dove viva una giovane e ricca vedova, già sospettata del suicidio / omicidio del marito imprenditore. Altre due morti, due amiche adolescenti della figliastra con cui non ha un buon rapporto, turbano il sonno della protagonista, visto che ogni volta lei si trova nei pressi del luogo del delitto. Il terrore si diffonde nel paese e tutti i sospetti ricadono sulla vedova, nonostante lo sceriffo, suo ex durante l’adolescenza, cerchi di trattare il caso seguendo la razionalità e non le emozioni. La narrazione è condotta con perizia: al lettore vengono presentati i vari personaggi, protagonisti e di contorno, delineandone con precisione la psicologia, lasciando all’immaginazione possibili interpretazioni e soluzioni del caso. Non so se qualcuno quella notte abbia effettivamente battuto alla mia porta, ma so che poco dopo ho intuito chi fosse il colpevole, confermato dalla lettura nella mattina successiva dell’ultimo capitolo. Che una forte emozione aiuti il cervello a lavorare meglio?
L’ultimo romanzo divorato, Una tempesta qualunque dell’inglese d’adozione William Boyd, mi ha colpito per avermi presentato una città che avevo visitato da poco, Londra, in una luce del tutto diversa. Il protagonista è un giovane ingegnere climatologo americano, venuto a Londra per sostenere un colloquio di lavoro. La sua vita brillante di giovane rampante scienziato viene cancellata improvvisamente per essersi trovato nel posto sbagliato al momento sbagliato: da testimone di un omicidio ne diventa l’indiziato numero uno, ricercato dalla polizia e dal vero killer, è costretto a nascondersi. Qui comincia, dopo un prologo fra i più classici del genere giallo/thriller, la parte più interessante della storia. Adam, questo il nome dello sfortunato, diventa un barbone per far sparire le proprie tracce, entrando in contatto con un mondo parallelo e invisibile fatto di emarginati, di non cittadini. Perde la propria identità, frequenta mense di poveri gestite da pastori di anime a dir poco rivoluzionari ma anche molto realistici, conosce suo malgrado la malavita dei bassifondi della metropoli rimediando un sacco di botte, diventa amico e amante di una prostituta dei quartieri popolari e poi si innamora di una stravagante poliziotta. Ha perso tutta la sua sovrastruttura ma ha ritrovato la parte più intima e vera, cui deve far ricorso per sopravvivere e dimostrare la propria innocenza. E’ un romanzo di formazione, se vogliamo, condotta attraverso la perdita di se stessi e la successiva rinascita. Alla fine non tutto è risolto, ma Adam è contento lo stesso.