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LETTURE PER POETI (12)Franco Fortini, Contro la “unicità” della Shoa

Da Ennioabate
anna frankHo esitato a pubblicare un post sulla Giornata della memoria. Ormai, almeno una volta all’anno  e per legge, tutti sembrano concordi a ricordare quel genocidio passato pur di non ragionare su altri che lo precedettero o lo seguirono e, forse, si preparano. Poi, leggendo un post di Sara Montagnani su “Vittorio Sereni e la memoria di Anna Frank” (qui), dove si accenna anche alle polemiche che hanno coinvolto la Anne Frank Stichting (Fondazione Anna Frank), mi sono ricordato di uno complesso scritto, in cui Fortini rievocava la censura che la sua opinione difforme dalla tesi della “unicità della Shoà” aveva  subito dalla dirigenza del  Corriere della sera (intorno al 1988), e lo ripropongo in queste Letture per poeti a quanti vogliono pensare e non  limitarsi alla commozione ritualizzata. [E.A.]dal “Corriere della sera”, in F. Fortini “Extrema ratio”, pagg. 108-115, Garzanti 1990

E ogni volta che toccai argomenti in qualche modo relati a Israele ebbi a sentirmi rifiutato  e contestato (e
proprio dal direttore o almeno per sua bocca) quel che avevo inteso scrivere. D’altra parte l’interesse a diffondere
la storia del sovrano buono e dei suoi mali consiglieri e del direttore sopraffatto dai vice direttori fa parte dei fonda-
menti di qualsiasi management e mi pare se ne trovi già  traccia nei poemi omerici.

Quando il presidente del Bundestag (*) fu costretto alle dimissioni per un discorso sulla Schuldfrage tanto coraggioso quanto, o così parve, inopportuno e molto ne parlarono i  giornali, scrissi un articolo e lo portai personalmente al direttore invece che al responsabile della Terza Pagina perché, gli dissi, mi pareva toccare un tema che, se a Jenninger era costata la presidenza, a lui avrebbe potuto costare il posto. Infatti me lo respinse. Non molto prima sorte analoga aveva avuto un intervento dove, a proposito della scomparsa di Primo Levi, rammentavo come diversa dalla sua la mia opinione circa la “unicità” dello Shoa (la parola “olocausto” mi ripugna, mistico-dannunziana quale è). Forse non ero ancora informato che qualsiasi dubbio su quella unicità e singolarità sarebbe stato considerato equivalente a complicità con il terrorismo mediorientale.  Lo trascrivo, insieme ad un appunto di allora.

«Caso Jenninger, crimini nazisti, consenso di massa. Di quel che l’ex presidente del Bundestag avrebbe dichiarato, non so più  di quanto i giornali hanno scritto. Avrebbe, fra l’altro, affermato che il nazismo aveva goduto del consenso della maggioranza dei tedeschi. Un incidente protocollare, il suo; come di chi avesse indossato calzini a losanghe rosse e blu per esser ricevuto in Vaticano. O un trionfo della ipocrisia internazionale. Traduciamo: il nazismo possedeva profonde radici culturali, precedenti la propaganda hitleriana.

«Due anni fa, venne recitato a Milano il testo teatrale L’istruttoria di Peter Weiss, montaggio di verbali di un processo contro criminali nazisti celebrato a Francoforte. Una istituzione culturale tedesca mi invitò a parlarne in pubblico. Scrissi il mio intervento e ritenni opportuno mostrarlo, per un parere preventivo, a chi me lo aveva richiesto. Il mio cortese ospite mi informò di un vivo dibattito che ignoravo, allora in corso in Germania, sulle tesi cosiddette revisioniste, sostenute dalla autorità dello storico Nolte (ma anche da personaggi, come si suol
dire, infrequentabili) e avversate da una delle massime figure  dell’attuale pensiero tedesco, Habermas.

«Alcune parti delle mie pagine – mi disse – avrebbero potuto venir interpretate come di appoggio alle tesi, politicamente equivoche, dei cosiddetti revisionisti. Questi avrebbero voluto combattere l’idea di una mostruosa (e quindi diabolico-divina) singolarità storica dello sterminio nazista degli ebrei e accreditarne una di sostanziale identità (per barbarie se non per metodo) fra quelle ed altri grandi massacri di popolazioni civili, inclinando ad associare a quelli nazisti i crimini dell’era staliniana, anzi, di tutti gli eventi successivi all’Ottobre 1917. Quanto
a me, oltre ai grandi eccidi di Amburgo, Dresda, Hiroshima e Nagasaki, ricordavo il macello di milioni di slavi compiuto dai nazisti e, più in genere, la distruzione di popoli interi e culture compiute dal colonialismo e dalle rivoluzioni industriali dell’Occidente. Non fa grande differenza sopprimere due generazioni di esseri umani in cinque o in cinquant’anni.[i]

«Convenni col cortese interlocutore, tolsi, attenuai. Ma quel che pensavo allora, ancora oggi lo penso anche se mi dispiacque sapermi in disaccordo con chi tanta maggiore autorità della mia aveva nell’argomento, cioè un uomo dall’altezza intellettuale e morale di Primo Levi.

«La questione è quella delle radici dei sistemi autoritari. Finché ci si limiterà a parlare di “personalità autoritaria”, in termini di sociologia freudiana, temo si farà poca strada. Si ridefiniscano le nozioni di consenso, di democrazia rappresentativa, di finalità della politica; si cerchi di farlo, evitando le sedi (che non sono solo i parlamenti e i mass-media) dove le menzogne siedono in scranno, convenzionali e necessarie. Per questa periodica e quindi relativa e provvisoria “verifica del linguaggio” si discriminino gli interlocutori e i destinatari con un atto preli-
minare, che è già politico; e non si pretenda ad una ingannevole universalità. Penso ad alcuni nodi della riflessione storico-politica, che porta i nomi (simbolici, naturalmente) di Arendt, Bloch, Merleau Ponty, Adorno, Lukàcs, Sartre, Weil, Althusser, Bateson, Marcuse, Foucault. Quella della generazione che nel ventennio successivo alla guerra si interrogò sul cinquantennio precedente. Rimuovendo (non senza qualche buona ragione) quelle “letture del mondo”, il pensiero successivo si è però guardato dal sostituirle con altre interpretazioni. Ha esorcizzato un mezzo secolo, nella illusione di possedere così le chiavi del successivo. Nei confronti di una storia intollerabile ha emesso una propria “dichiarazione di inesistenza”, degna di Alice nel Paese delle Meraviglie.

«Per questo i discorsi di un Jenninger (e dei suoi critici) suonano, al di là delle loro ottime intenzioni, curiosamente infantili alle orecchie di una generazione avviata, come la mia, allo Exit. Forse siamo rimbambiti (o imbarbariti, è lo stesso). Udendo quei discorsi, il gesto di insofferenza, seppure inevitabile, è inutile; come certo è ridicolo quello che ho compiuto, poche righe sopra, rimandando ad una qualche bibliografia. Presuppone viva una decrepita illusione e cioè che gli “addetti” possano mediare le loro riflessioni e letture ai “non-addetti” quando in-
vece questi ultimi sono essi, i consumatori della informazione di  massa e illusi di partecipare direttamente alla menzogna cerimoniale, coloro che si alzano indignati alle parole di Jenninger, reagendo insomma secondo uno dei due o quattro modelli di formule accettate come tollerabili. Avete notato come quelli che dibattono in TV sono sempre ben preoccupati di rispettare  le regole della tolleranza ideologica? Anche quelli che si alzano
e se ne vanno se odono quelle che loro paiono inaccettabili enormità, lo fanno (ma in genere non lo fanno) con un gesto-parola, come fossero rappresentanti di una nazione all’ONU e non già perché personalmente indignati. Laddove chi gridasse “Bugiardo!” o “Buffone!” sarebbe solo considerato un maleducato.

« Eppure, qualche sussidio bibliografico … Qualche anno fa alcuni cosiddetti “nuovi filosofi” francesi ebbero un momento di volgarissima fama per certi loro libri dove si dimostrava che le grandi menti della Germania dell’età di Goethe e Hegel e fino a quella di Marx incluso erano le orribili madri dell’antisemitismo, del nazismo e del comunismo staliniano (equiparati tra loro, per non creare troppi problemi a chi deve solo annusare il vento che tira). Erano sciocchezze. Però servirono, anche da noi, ad un preciso programma di demoralizzazione ideologi-
ca rivolto alla generazione degli anni 1967-1973. Dopo di che, eseguita la bassa bisogna, quei filosofi furono rimandati alle lo ro cattedre o redazioni.

«Parlare del consenso della maggioranza dei tedeschi verso la politica hitleriana, almeno fino al 1942; e di quella della maggioranza degli italiani verso il fascismo, almeno fin verso il 1938; e della maggioranza dei sovietici per quella staliniana, almeno fin verso la fine della guerra, pone interrogativi cui non è facile rispondere. Ci si avvedrà che una cultura, se non del nazismo, certo introduttiva al nazismo, “dai romantici a Hitler” (titolo di un remoto saggio dell’inglese Peter Wiereck) esisteva, eccome, e non coincideva con quella dei portavoce o dei
portapenna delle S.S. ma di tutta una parte della grande cultura tedesca dall’età romantica a quella guglielmina e nella quale rientravano anche le massime figure dell’umanesimo decadente, George o Rilke o Mann o Gundolf o Spengler o Junger.

«Non è forse questa una chiamata in correità di tutta l’eredità culturale europea? Di quel che abbiamo di meglio? Come è stato possibile che si sia giunti dove si è giunti? Chi è il responsabile, qui? Subito dopo la guerra, a fosse aperte, ce lo siamo chiesto. Oggi, mentre continuiamo a scoprire inimmaginabili fosse comuni, accettiamo che la storia del secolo, cioè la nostra vita, ci sia raccontata come una favola di burattini, i buoni qui e i cattivi là, tutto chiaro.

«I bambini, credo lo sappiate, non sono portati dalle cicogne. La storia degli uomini non è un parlamento di brava gente. Quello Jenninger voleva essere (che dico: certo era) un signore dabbene. Ha avuto la dabbenaggine di dire quel che pensava e non avrebbe dovuto dire. Ma non innocentemente si diventa così autorevoli personaggi. Peggio per lui. Contrariamente a quel che alcuni suoi critici hanno detto, quel che pensava e dichiarava era probabilmente cauteloso, circonlocutorio, generico. Se non si provvede, non già a dire o a scrivere (che serve a poco) ma a pensare anche in luogo suo e dei milioni di persone dabbene e di media buona coscienza, allora sarà tanto peggio per noi».[ii]

Sarebbe bastato correggere con due o tre parole prese dal repertorio della ovvietà e quelle righe sarebbero state pubblicate senza difficoltà. Naturalmente, posso dirlo perché mi faccio volontariamente più ingenuo di quanto
non sia e fingo di non sapere il senso e avviso  che il rifiuto voleva avere, qualcosa come il gatto morto buttato
sulla soglia di casa. Quel che oggi, in quelle mie righe, mi urta, non è già quanto vi è detto ma quanto non vi è detto o è appena accennato o sottinteso. Al limite, uno potrebbe parlare di rose e di nuvole invece che di Intifada e, nondimeno, introdurre nelle forme sintattiche o nelle scelte lessicali qualcosa che ferisca l’ordine più gravemente di un appello alla insurrezione. (Le polizie, manifeste o segrete, di tutto il mondo, queste cose le hanno sempre sapute). Sono probabilmente il solo autore del mio paese che a settantadue anni di età scrive un articolo inaccettabile per  un grande quotidiano indipendente. Di che insuperbire.

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[i]

Nota 1990. Naturalmente fa grandissima differenza. I processi di rimozione di cui godevano i ceti borghesi del secolo X1X consentivano una falsa coscienza che la concentrazione della violenza nazista non permise a nessuno.

Ma il discorso della storia è appunto una accelerazione innaturale della mo- viola o un suo tremendo rallentamento. Non diverso, in questo, da qualsiasi discorso profetico o di nèmesi. Nell’opera di Peter Weiss, dove tutte le battute sono trascritte da verbali del processo di Francoforte ad aguzzini nazisti, un sopravvissuto dice una verità irrespingibile: «Se eravamo in tanti / nel Lager / e se furono tanti / a portarci dentro / il fatto si dovrebbe capire / ancora oggi. / Molti di quelli destinati a figurare come Haftlinge (prigionieri) / erano cresciuti con gli stessi principi / di quelli / che assunsero la parte di guardie. / Si erano dedicati alla stessa nazione / impegnandosi per uno sforzo per un guadagno comuni / e se non fossero finiti Haftlinge / sarebbero potuti riuscire guardie. / Smettiamo di affermare con superiorità / che il mondo dei Lager ci è incomprensibile. / Conoscevamo tutti la socie/ da cui uscì il regime / capace di fabbricare quei Lager. / Lordine che vi regnava / ne conoscevamo il
n
occiolo / per questo riuscimmo a seguirlo / nei suoi ultimi sviluppi / quando lo sfruttatore poté / esercitare il suo potere / fino a un grado inaudito/ e lo sfruttato / dovette arrivare a fornire / la cenere delle sue ossa» (ed. it. pp. 131-132).

 

[ii] Un anno più tardi, queste sono opinioni correnti, persino sul «Corriere». Jenninger può essere intervistato dalla TV italiana. Più significativo il modo con cui si è recentemente introdotto in Italia lo studio di uno storico tedesco “revisionista”. Chi lo presenta accetta l’idea, fino a oggi considerata aberrante, della non unicità storica degli eccidi nazisti compiuti contro gli ebrei; ma lo fa al fine di dimostrare che l’origine della persuasione della inconfrontabilità e unicità risiede nella mitologia dell”’antifascismo”, troppo tenero, come Roosevelt, con i Comunisti. Si afferma che altri e altrettanto efferati massacri  si dettero: quelli russi, sovietici, staliniani contro la popolazione civile tedesca. E che quella mitologia ha contribuito a farli dimenticare o passare sotto silenzio; per di più tacendo della complicità degli alleati occidentali. Così si assume la gradevole figura di chi combatte pregiudizi ben radicati e, nel medesimo tempo, invece di chiedersi quali siano, e quali cause abbiano, i grandi massacri nel mondo contemporaneo, si aiuta a fissare identità (Stalin eguale a Hitler, comunismo pari a nazismo, Lenin gemello di Ceausescu) che seppelliscono qualsiasi giudizio storico sotto la contabilità dei cadaveri. Quella contabilità, lo so bene, è insensata. Eppure non posso trattenermi dal chiedere perché si rimproverano gli inglesi e gli americani di non aver fermato la mano delle « bestie marxiste» (ossia di non aver rovesciato le alleanze prima
che i sovietici fossero a Berlino … ) quando le armate bolsceviche, entrando in Germania, fecero strage di civili tedeschi; tuttavia tacendo delle centinaia di migliaia di civili senza nessuna seria ragione militare arsi a Dresda, Hiroshima e Nagasaki.

(*) Il dibattito suscitato nel 1988 in Germania dal discorso del presidente del parlamento Philipp Jenninger che fu considerato una rivalutazione del nazismo, costrinse Jenninger a dimettersi.


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