Parabola umana discendente, Leviathan mette in scena il suo Giobbe epurandolo da ogni accezione biblica. Il caos primordiale che lo incatena sembra espressione della volontà divina, eppure il significato hobbesiano del Leviatano è più aderente alla pellicola. Sacro e profano (chiesa e stato) si fondono per Zvyagintsev. Il risultato? Una pellicola da ingurgitare in una sola sorsata (di vodka).
Kolia vive in una piccola comunità rurale nel nord della Russia. E in questo piccolo paese un sindaco prepotente e corrotto vuole impadronirsi delle sue terre. Coriaceo ed ex-militare, Kolia si lancia a capofitto in una causa legale contro il sindaco e in suo aiuto accorre un ex-commilitone ora avvocato.
Decadente è la messinscena (un’isola del Nord della Russia immersa in una fotografia oscura, sporca e solcata da un mare che “nasconde” relitti e carcasse di giganteschi mammiferi) e la delineazione dei personaggi, che perdono tutto in un battito di ciglia e annegano nella vodka e nel malcostume. Tuttavia Leviathan non è tutto qui e proprio come uno scritto dei grandi romanzieri russi, Leviathan sottolinea i dettagli, persegue un andamento lento e non lascia nulla al caso. E non a caso si è aggiudicato il premio per la miglior sceneggiatura a Cannes 66, un premio che consacra la pulizia di una scrittura di altissimo livello, che calca la mano nelle caratterizzazioni e non perde l’occasione per muovere critiche al popolo russo (perennemente ubriaco e appassionato di tiro al bersaglio), alla chiesa ortodossa e alle alte istituzioni nazionali (da Putin all’insignificante e testardo sindaco di paese). Kolia lotta contro i mulini a vento, cade, si rialza, ma cade di nuovo, per poi non rialzarsi più. Un personaggio, che distrutto da un’esistenza senza via d’uscita, smette di combattere e si lascia scivolare nell’oblio.
Gonfio di comicità nera, Leviathan è un film dalla scintillante bellezza, dalla provocante empatia e dall’inevitabile decadenza. Eppure, nonostante la sua voglia di rendersi profondamente disturbante, grazie al suo lento incedere non appare come un pugno nello stomaco, ma come una rappresentazione reale e viscerale di una comunità (e di un uomo) dal futuro oscuro e dal presente desolante. Un popolo (quello russo) che non può nemmeno appoggiarsi alla religione, che viene delineata in modo crudele.
Kolia accerchiato (e costretto) da quello stato che dovrebbe tutelarlo è il Giobbe di Zvyagintsev, privato del suo significato biblico e contaminato da quello hobbesiano. Una pellicola da assaporare senza remore, che può rivelarsi un arduo “pasto” per lo spettatore comune.
Voto: ****