discorso che si vuole funzionale e esatto, e non mai semplicemente ideologico o illustrativo di un messaggio troppo scoperto e non sufficientemente elaborato. La poesia di Berardinelli, infatti, stabilite le sue distanze dal linguaggio di crisi novecentesca della prima metà del secolo, o anche da quello più immediatamente prossimo delle neoavanguardie, sembra semmai ricollegarsi al rigorismo etico e all'allegorismo dei Vociani, riconquistati tramite la gnomica e la pedagogia in verso di Fortini e la sperimentazione non solo verbale-letteraria degli scrittori di « Officina », fino a trovare e configurare, nella realtà di oggi, un suo universo deietto, massificato e come congelato nel tardo capitalismo, di fronte a cui chi scrive ha una presa di coscienza politica, che somiglia, peraltro, molto anche a una lotta espressiva, e a un agone mistico religioso.(...)".
Al di là delle parole di Forti, che lo stesso successivo lavoro critico e polemico di Berardinelli datano inequivocabilmente, è interessante gettare uno sguardo sulla scrittura poetica di quegli anni del nostro. E cercare di immaginare che cosa scriverebbe del Berardinelli poeta di allora il Berardinelli critico di oggi.
LEZIONE ALL'APERTO
Smetti di leggere: guarda!
P. Celan
1
Ancora una primavera opaca
coperta da una nebbia verde
propizia come una macchia di foglie
affondata nel buio, carica, repellente.
Una schiuma di luce sotto la cute
astratta e rovente come un'ustione.
La suppurazione cieca dei biancospini
bianco su bianco, verde e grigio
appena un filo, un indizio
un'esuberanza, una nuvola.
Anche qui macchie di mandorli
file di nocciòli nella nebbia
biancastri, senza dolcezza
tra una stagione e l'altra, in dormiveglia.
2
Qui mucchi di sabbia, crepe.
Niente che suggerisca ricomposizioni.
Raramente una striscia di gelo.
Una costa assiderata.
Una cauta evenienza di vita.
Barriere di nuvole, schermi.
Conifere e licheni. Visibili così,
da qualunque lato, dovunque.
Una frana di foglie. Umidità, riflussi.
Rami di fibra dolce.
Appena foga di parole o altro.
Contrazioni e spasmi,
fenditure di ali e zampe,
sfinteri e pinne avviati alla fine.
Tutto ciò che l'apparenza risparmia.
«Qui non donna, né uomo, né fanciullo,
né uccello, né vespa, né cane,
né conca d'acqua, né fronda. »
3
Approssimazioni: rampicanti e piumini.
Sughera, carrubo, siliquastro,
vite vinifera, albero di Giuda.
L'arenaria rossa cementata
da ossido di ferro.
L'arenaria stratificata e conglomerata:
chi lo direbbe? una chioma rossa
pettinata da molte mani.
La graminacea ammofila:
spudorata, sfrontata, a fiocchi.
La graminacea piena di speranze prossime.
La graminacea accanto all'osso, cupa.
4
Scruta l'occhio della scimmia,
osserva il giallo quasi-umano,
il gesto pigro e svelto.
Ricorda il salto, il pelo grigio,
l'unghia nera e lunga,
l'inquieta e sospettosa calma.
La fronte è un'acuta lingua.
La coda è animata e tesa.
Il corpo è una molla equamente caricata da Dio.
Guarda il sonno dei cani,
il loro scuro giaciglio.
L'arcaico stile di vita che li governa.
L'occhio loro non ha ruotato
lungo tutti i perimetri.
La lìngua loro non immagina niente.
E tutto questo non è un travestimento.
Prova a guardare, a vedere.
Smetti di leggere: guarda!
5
Un giardino nella sfera del giorno.
Il pelo caldo del lama mansueto. La scimmia
alla catena. Ma, oh guarda
il mostruoso lungo pelo fulvo
dell'orango coricato dietro lo spesso vetro!
Guarda il fango nero in cui nuota e scava
il muso del cinghiale! L'odore asprigno
delle capre nomadi, il tapiro dalla gualdrappa,
il contegnoso volto del cammello caccoloso e sgonfio!
Qui il cervo non esibisce né usa il mistico rameggio.
La poiana medita e sdegna.
L'avvoltoio è un vecchio nobile sanguinario in pensione.
Solo la scimmia è abbastanza cinica da fregare
il padrone e il prossimo. Eppure urla e piange
come un neonato o un vecchio, oltre ogni ragione.
Bello è il ghepardo, e il giaguaro:
hanno freddo e odio dentro le lussuose pellicce,
tengono in serbo muscoli inutili per lottare
e vincere, navigano in sogno nei deserti di roccia
o di neve, a pesca e a caccia lungo steppe e fiumi montani.
Questo pasto di vermi non li appaga.
Ma voi,
fenicotteri rosa in sonno, miti bramini,
perché non lasciate la sporca pozza,
perché non volate all'improvviso a Dio?
6
È qui, è presente
con la faccia rugosa del suo legno.
Si concentra in tondi nodi,
stabilisce con sagacia il suo limite.
Si allunga senza esitare, mostra
per un momento il proprio essere in fuga.
Dove vanno le sue cancellabili
macchie, i suoi pori? Dove accade
la sua lenta maturazione di oggetto?
Il tornio ha lavorato le sue vertebre.
Senza muoversi aspira al soffitto,
si dispone in lungo e in largo
occupando uno spazio considerevole.
Ma fa dormire su di sé
altre fraterne cose.
Non scioglie i propri né gli altrui
confini. Tiene conto di processi e di
contraddizioni. Ha il suo occhio
e la sua volontà. Ha
la sua storia, ma anche il suo sonno.
7
Arrendevoli alberi e arbusti,
lucidi nella loro carta, ma dentro opachi.
Curvi e pendenti ma soddisfatti come sessi.
O mossi e protesi, a spigoli.
Ben collegati al tepore dei loro canali.
Di superfici erette e tese. Esplosi.
Eppure ben difesi dentro le maglie dure
del guscio. Si versano senza avarizia.
La luce che assorbono va lungo strali e arti.
Si macchiano di rosso, se necessario.
O escono dalla propria levigata pelle
in spine e foglie. Divisi. Si aggregano
e danno frutti o difese. Si gonfiano
in serbatoi di alimento e di sonno.
Piovono giù. Allontanano l'acqua dal sughero.
Organizzano dischi sovrapposti, eliche
dure. Bacche o pigre trombe. Pomi di folta luce.
Si negano e si mediano.
Crescono.