Lezioni di tango

Creato il 11 dicembre 2013 da Lundici @lundici_it

“Lezioni di tango” vide la luce, per un’esperienza personale dell’inglese Sally Potter, regista e autrice della pellicola, nell’oramai lontano 1997.

“Lezioni di tango” è un film del 1997 di Sally Potter.

All’epoca, non credevo molto, per usare un benevolo eufemismo, nel potere del corpo e nelle opportunità che si aprono nell’apparente linearità delle esistenze umane, nell’istante in cui dalla mente ci si distanzia per scoprire nuovi mondi.

Nonostante i limiti angusti di quella mia forma del vivere, qualcosa mi spinse alla visione curiosa e attenta del film, il cui senso mi sarebbe giunto a distanza di anni, ma che, in quel primo susseguirsi di fotogrammi, seppe già rapirmi.

Il nucleo, intimo e profondo, della storia è nelle identità e nello scambio, in ciò che siamo e in ciò che dovremmo essere, nelle carenze e nei bisogni, nell’autonomia e nella condivisione, nel dare e nel ricevere, in una danza che è molto di più di un tango, è la mimesi dell’incontro con l’altro, della scoperta di fragilità e debolezze, di una complessità di vita che va scarnificata e ridotta all’essenza per ritrovare ciò che manca, in sé e nella relazione.

Il tango semplifica, riduce all’essenza e chiede all’uomo di condurre, nel rispetto dell’identità femminile altrui, senza invadere, alla donna la morbidezza del corpo in un’adattabilità al volere dell’uomo che è scelta e fiducia.

Il sottile aprire gli occhi e il cuore alla percezione di sé, che supera in profondità ciò che quotidianamente siamo in ruoli comodi di copertura, il tango lo concede quale prezioso dono, da custodire nelle segrete stanze della propria intimità, a chi sappia mettersi in discussione, a chi sia pronto a cedere di fronte all’evidenza di un corpo che parla e si pronuncia con sentenza inappellabile.

Sentire, sentirsi, sentire l’altro è la partenza: provare a farlo col cuore, senza vederlo, quell’altro, ma percependone la presenza dietro il buio degli occhi, oltre il quale fluisce il rosso del cuore e prepotentemente si affaccia il vitale sussulto delle emozioni.

Quando Sally Potter e Pablo Veron, sullo schermo e, forse, nella vita, riprodussero egregiamente la magia alchemica dell’incontro tra un uomo e una donna che, corporalmente e non solo, richiede un andare e un seguire, un cogliere e un accogliere, non sapevo molto di energie, maschili e femminili, e l’esperienza di vita, per difesa e fuga, si aggirava pericolosamente sempre e solo in territori maschili, dove il pensiero domina e il ribollire emotivo risuona, ma in lontananze sicure.

La meravigliosa e generosa accondiscendenza della donna, di una donna che, come Sally Potter, si rispecchia nell’identità quotidiana di un ruolo, quale quello da regista, che deve essere maschile nel fungere da solenne e autorevole indicatore di direzione, non lo avevo colto intimamente.

Condotta in una sala, e non più solo cinematografica, ne ho colto l’estrema complessità. Cosa significa fidarsi davvero? Cosa significa scegliere di fidarsi e non farsi condurre in un automatico bisogno di fuggire e delegare all’altro la responsabilità della propria vita? Cosa significa sperimentare la plasmabilità del corpo femminile che sa mutare non solo per accogliere nuova vita, ma anche ciclicamente, in una morte e in una rinascita che mensilmente si avvicendano?

Cos’è la morbidezza della figura femminile che prende dall’altro, che trasforma il dono dell’altro restituendolo in rinnovate forme, senza che ciò equivalga a sentirsi svuotata?
Se la vita mi conduce, in un processo sano di crescita, a comprendere dove sia io e dove la mia centratura, come imparare a sentire il cuore dell’altro e dove esso conduce, senza perderla, la centratura, senza perdermi?

E, allora, subentra la paura, quella che, certamente, la Potter dovette lasciarsi alle spalle, nella plasticità e fluida malleabilità del ballo con il suo ballerino e amante. Quale paura?
Paura di non sapere chi tu sia, se cedi, se perdi il controllo della situazione, e paura di non sapere come incontrare l’altro, se, per un tempo che ti è parso infinito, hai guidato, o provato a farlo, con i discreti mezzi messi a disposizione dalla vita, e ora ti ritrovi a dovere imparare a seguire e a dare fiducia, senza che nessuno lo abbia mai fatto con te.

Ti ritrovi inerme in mezzo alla sala e ti accorgi di essere un infante che pericolosamente si incanala nel pianto liberatorio del bambino che non ha ancora nulla a cui aggrapparsi nei tentativi di crescita che lo pongono di fronte al confronto con l’adulto, con ciò che ancora non è e verso cui tende. In mezzo alla sala, ti scopri solo con te stesso, impunemente di fronte alle tue fragilità. Sai che rischi di perderlo, l’altro, ma sai anche di non poterlo incontrare e conoscere veramente, se anche tu non sei capace di farlo, un passo.

Stavolta, indietro.
Scriveva Borges: ”…fatto di polvere, l’uomo dura meno della leggera melodia, che solo è tempo…Il tango crea un buio passato irreale che in qualche modo è certo…”.
E’ il buio che appartiene solo a te.
Non solo, però, quello triste e ingombrante di un passato che è di impedimento all’incontro, anche quello che possiamo addobbare con i ricordi caldi di quello stesso passato che, nella sua forma mozzata, con l’altro ci ha anche fatto incontrare, e con i sogni.

Quelli che ci spingono a credere che trasformare non sia solo l’esito sperato di una delle multiformi bacchette magiche delle eroine dei cartoni di un’infanzia animatamente popolosa, ma anche frutto di una cedevolezza a ciò che naturalmente siamo.
Come Sally Potter e Pablo Veron.
Come una donna e un uomo.


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