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Libano/ 22 Ottobre 2012. Reportage di Lieta Zanatta sul Messaggero di Sant’Antonio

Creato il 04 novembre 2012 da Antonio Conte

Libano/ 22 Ottobre 2012. Reportage di Lieta Zanatta sul Messaggero di Sant’Antonio

Il racconto in presa diretta dell’opera di pacificazione tra libanesi e israeliani che, con pazienza e dedizione, il contingente italiano sta sostenendo al confine Sud del Paese dei cedri, sotto l’egida delle Nazioni Unite, per ricucire le ferite lasciate dalla guerra del 2006. (pubblicato sul numero di ottobre del mensile “Messaggero di Sant’Antonio”. Scarica il PDF)

Libano/ 22 Ottobre 2012. Reportage di Lieta Zanatta sul Messaggero di Sant’Antonio
Libano/ 22 Ottobre 2012. Reportage di Lieta Zanatta sul Messaggero di Sant’Antonio
di Lieta Zanatta – “Quando ho visto arrivare sopra il mio tavolo dei cornetti italiani per fare colazione, ho capito che gli sforzi fatti per mettere Israele e Libano l’uno di fronte all’altro al fine di parlarsi, avevano avuto successo”. E’ quantomeno curioso pensare che la pace nel Paese dei cedri possa passare per un vassoio di paste. Eppure è proprio così, almeno a sentire il generale di divisione Paolo Serra, capo della forza di interposizione in Libano delle nazioni Unite (Unifil), che dirige il tripartite meeting, l’incontro mensile tripartito con i rappresentanti israeliano e libanese, dove funge da intermediario. E’, questo, un espediente inventato proprio da un altro italiano, il generale Claudio Graziano, che ha preceduto Serra rimanendo nel Paese dal 2007 al 2010, vale a dire a partire dall’anno seguente la cessazione delle ostilità tra Libano e Israele. Perché la fine della guerra del 2006 non è mai stata sancita ufficialmente dai due Paesi. Nel luglio del 2006, i combattenti di Hezbollah (“partito di Dio”, sciita, filo siriano e iraniano) fecero un’incursione in territorio israeliano e presero in ostaggio due soldati. Portarono i due militari in Libano, causando l’immediata reazione di Israele, che invase la parte meridionale del Paese dei cedri. La guerra ha portato alla distruzione di infrastrutture importanti: strade, ponti e centrali elettriche. E’ durata solo un mese, ma i suoi effetti devastanti si sentono ancora oggi. Nell’agosto del 2006, infatti, l’ONU stabilì, in base alla risoluzione 1701, di schierare un contingente di forze internazionali nella zona oggetto del conflitto, sotto il fiume Litani, per imporre a Israele di rientrare nei propri confini. Ai caschi blu il compito di far cessare le ostilità, supportando le forze armate libanesi nel riprendere il controllo del loro territorio nazionale, e aiutando gli sfollati a rientrare nelle proprie case. Ma non è stato sufficiente: ristabilire i confini significava anche promuovere tentativi di pacificazione tra i contendenti. E’ nata così nel 2007 l’idea di fare incontrare i rappresentanti dei due Paesi in un edificio sul confine, con due ingressi separati attraverso i quali l’israeliano e il libanese sarebbero entrati contemporaneamente. All’inizio i due diplomatici rifiutavano persino di guardarsi in faccia, e parlano per interposta persona. Ma la pazienza del generale Graziano, e ora di Serra, è stata premiata: segno ne sono quei cornetti italiani, portati proprio dai due contendenti per fare colazione insieme. “Durante gli incontri – spiega Serra – parliamo di sicurezza militare, per evitare di alzare il livello delle tensioni. Per esempio, qualche mese fa abbiamo deciso di costruire un muro che divide Metulla, villaggio israeliano, dal dirimpettaio Kila, libanese. La strada del confine ci passava in mezzo, e le pattuglie israeliane erano spesso fatte oggetto di sassaiole. Per eliminare i motivi di frizione, entrambe le parti hanno accolto con favore la costruzione di questo muro lungo un chilometro e alto fino a 7 metri. Sembra una contraddizione, ma questa barriera è un passo avanti verso la normalizzazione. Un passo in più lo faremo quando non servirà più e la abbatteremo”. Nel tripartito si parla con la volontà di entrambe le parti di non ricadere in provocazioni che potrebbero risultare fatali e fare scatenare un nuovo conflitto. Ma soprattutto si ascolta l’altro.

L’OPERA DEGLI ARTIFICIERI. Il Libano conosce la guerra civile dal 1975; è stato in guerra con i Paesi vicini dal 1978. La pace è arrivata solamente sei anni fa: i bambini che iniziano ad andare a scuola oggi sono i primi a non avere mai vissuto nessun conflitto. “Se in Libano non si sono avuti i disordini provocati dalla primavera araba è stato anche grazie a Unifil – ribadisce il generale Serra, che comanda 12 mila caschi blu di 38 nazioni schierate a sud del fiume Litani -. La guerra civile della vicina Siria non ha minato la situazione di questo Paese, e soprattutto qui nel Sud non se ne sono sentiti gli echi”. Il tripartito è il luogo dove si stabilisce man mano la blue Line, la linea di demarcazione che dal 2000 viene tracciata per stabilire l’esatto confine tra Libano ed Israele. E’ questo un sentiero largo poco più di due metri tra i campi libanesi che Israele ha lasciato minati a sua difesa. Tra gli artificieri, impegnati un paziente lavoro di precisione, ci sono anche gli italiani. Sono squadre di ragazzi che si alternano ogni cinquanta minuti sotto il sole, a una temperatura di 40 gradi, per bonificare il terreno centimetro per centimetro, guadagnando appena un metro o poco più al giorno. Ogni 200 metri circa viene installato un border pillar, un’asta sormontata da un bidone blu, visibile da quello precedentemente posato. Ce ne vogliono circa cinquecento per coprire i 118 chilometri di confine presidiato da Unifil. Dal 2000 è stato fatto un quarto del lavoro. Una volta che negli incontri del tripartito viene deciso da entrambe le parti il punto dove va sistemato il pilone, Israele consegna le mappe dei terreni minati interessati alla bonifica. Ma esiste anche un altro confine fisico, non ufficiale: Israele ha realizzato, lungo una sua linea di demarcazione, la technical fence, una recinzione elettrificata dov’è istallata una serie di telecamere puntate verso il territorio libanese, e dove sono presenti, a distanza regolare, delle postazioni militari. Basta toccare la rete per farsi immediatamente identificare e vedersi spuntare davanti, in meno di un minuto, un blindato. Sotto la recinzione corre una striscia di terreno larga due metri, il soft soil, un terreno vagliato fine, che una macchina apposita liscia tre volte al giorno. Un’impronta umana, ma anche la semplice orma di un animale, viene subito rilevata. Le pattuglie passano di continuo nel sentiero accanto. Solo sei anni fa, in questa zona piovevano i razzi che Hezbollah lanciava dai canyon e dalle valli libanesi percorse dagli uadi, i fiumi che si formano con le piogge di primavera. Adesso nella regione la pace è una realtà, seppur precaria, grazie all’impegno degli uomini delle Nazioni Unite, e alla volontà del governo e dei politici libanesi di tenere sotto controllo i disordini che i venti della guerra civile in Siria hanno portato nel Nord del Paese. Questa fase è importante anche perché il Libano è l’unico stato del Medio Oriente a essere, per statuto, multiconfessionale – con 18 diverse comunità che si dividono tra cristiani, musulmani ed ebrei – dove tutte le minoranze sono tutelate e tutti, a prescindere dal credo, hanno gli stessi diritti. Il presidente della Repubblica è un cristiano maronita, quello del Consiglio dei ministri un sunnita e quello del Parlamento uno sciita. Il Libano, con i suoi quattro milioni di abitanti e il suo territorio grande quanto l’Abruzzo, è così rappresentato dalle religioni maggioritarie, come prevede la sua Costituzione del 1943. Minareti e chiese cristiane sorgono gli uni accanto alle altre senza che ciò sia guardato con sospetto. la coesistenza pacifica tra le religioni, nel Paese dei cedri è realtà.

UN RESTAURO MULTIRELIGIOSO: LA CHIESA DI NAFFAKIYAH.

C’è un paese dove il mukhtar sciita, il saggio capo eletto da tutta la comunità, ha chiesto aiuti al contingente italiano per recuperare l’antica chiesa cristiano ortodossa costruita a fianco della moschea. Succede nell’entroterra del Libano, ai confini con Israele, nel villaggio di Naffakiyah, uno dei pochi siti risparmiati dai bombardamenti israeliani durante la guerra del 2006. I circa quattrocento abitanti del villaggio sono per il 40 percento cristiano ortodossi e per il 60 percento mussulmani sciiti. A seguire la minoranza cristiana è padre William Naklles, figura di riferimento religiosa anche per la comunità islamica. “Sono venuto qui vent’anni fa, e non ho mai avuto alcun problema con la comunità islamica – spiega il sacerdote -, mentre più teo è il rapporto a Beirut o al Nord dove, con la guerra civile degli anni Settanta, ci sono stati scontri tra confessioni. A Naffakiyah siamo restati uniti anche durante l’ultima guerra con Israele. In questo villaggio viviamo l’uno accanto all’altro: siamo un corpo unico”. Il campanile, quattro piloni rovinati che sorreggono una cupoletta, svetta dietro la mole della chiesa, le cui mura sono oggetto dell’attenzione di alcuni operai. Le piccole porte, sormontate da un architrave su cui poggia un arco ad ogiva, danno accesso all’aula, spogliata di tutto per via dei lavori, compresi gli intonaci, tanto che sono ben individuabili i tre diversi tempi di costruzione. “La chiesa ha almeno 600 anni” spiega l’architetto che dirige il cantiere, ma alcuni elementi sono anche precedenti, verosimilmente del tempo delle crociate, come sembra rivelare una nicchia scoperta scrostando l’intonaco. Dice padre William: “Era da tanto tempo che assieme al mukhtar cercavamo qualcuno che si occupasse di questa chiesa, dedicata a San Marco. Poi sono arrivati i militari italiani e le cose si sono sbloccate”. L’intervento di restauro, infatti, si colloca tra i progetti di aiuto per la salvaguardia del patrimonio culturale locale finanziati dal Cimic, l’organo di cooperazione civile e militare, con un triplice obiettivo: ottenere il consenso della popolazione, far rientrare gli abitanti cristiani fuggiti ai tempi della guerra e far nascere un embrione di turismo. Questo modo di operare è tutto italiano, e porta nel Paese dei cedri un’immagine molto positiva del nostro Paese. Infatti padre William ripete di continuo: “Non so come ringraziare i soldati e il popolo italiani per come ci stanno aiutando, non solo per il restauro della chiesa, ma anche per tutto quello che stanno facendo per la pace in Libano. Da parte nostra, possiamo unicamente ricambiare con la preghiera”.


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