Libeccio (VII)

Da Bartel

La pietra che colpisce il vetro lucido dell’anima di un uomo vestito da avvocato di successo è letale. Anni di lenta cottura, di abitudini, di sicurezze, di niente di male, di attimi messi in fila si perdono improvvisamente tra i fili taglienti della ragnatela che l’urto ha disegnato sul vetro. La pietra è una donna magra, biondo-bianca seduta su una branda, legata ad una flebo appesa ad un asta. La pietra blocca i pensieri e l’aria sembra non voler più entrare nei polmoni di tutti i presenti: l’avvocato smilzo, lo sbirro amaro, il direttore chiacchierone per paura.Poi, come in ogni risveglio da un sogno strano, poche sillabe affiorano: “Silvana…sei tu?”.Gli occhi sono una carta di identità scaduta, ma non per questo falsa. Il sorriso, o quello che sembra un sorriso, conferma. Se il direttore ci ripensa non sa spiegare come una donna in quelle condizioni sia stata in grado di saltare dal letto al collo dell’avvocato. Sa solo che ora i due sono abbracciati e guarda stupito la faccia stupida del poliziotto con una mano alla fondina della pistola. Il direttore non si spiega quel dolore sconosciuto nel petto, come qualcosa di pesante, metallico, che affonda nella carne e non fa male, ma regala peso a ciò che penetra, rende piombo il sangue che precipita, si coagula, si ferma. Ciò che vede è estraneo al suo presente, ma forse lo ha sentito qualche volta in vita sua. Il poliziotto non riconosce la donna, non è quella arrivata nel suo ufficio mesi prima. Quella era il pericolo pubblico numero uno, questa ha capelli corti, braccia magre e trasuda dolore.L’avvocato non pensa, non c’è più. Ora c’è Giorgio, e gli mancano le forze per stringere quel ricordo che ha tra le braccia. Solo l’odore è incredibilmente lo stesso ed è l’odore che gli dice che tutto ciò è vero, reale, che la flebo sgocciola ancora, che fuori arriva il libeccio, che sua moglie l’aspetta, che ha parcheggiato l’auto all’angolo del tribunale, che stamattina si è svegliato in una casa dove dormono i suoi figli. Ma che importa ora che le piccole mani di Silvana gli stringono le guance? E se la baciasse? Che importanza può avere la sua vita in questo momento? “Avvocato…avvocato…”.La voce è dello sbirro, ma la faccia è quella di uno dispiaciuto di esistere.“Avvocato…signora…per favore…dobbiamo parlare…avvocato…signora De Stefani?”La rabbia dimenticata risale nello stomaco dell’avvocato come vomito trattenuto a lungo, ma le mani di Silvana scivolando dal suo viso stringono le sue mani, guidandolo verso il letto.“Vieni Giorgio, il commissario è qui per parlare …dobbiamo parlare…”.Il vomito torna a casa, seppellito ancora, forse per sempre. L’avvocato anestetizzato siede sul lettino, mano nella mano con Ciccia e aspetta.“Si…parliamo”.Il direttore chiude la porta uscendo e i suoi denti mordono a sangue il labbro inferiore mentre passa davanti alle secondine sull’attenti. Il sangue gli cola sul mento, mentre sparisce nella penombra di un corridoio lasciando dietro di se un rumore di passi e la scia del suo dopobarba da visita ufficiale.

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