Libera nos a Malo in Piemonte, fra stupore e associazioni
Costretta a letto per via del colpo della strega, curiosa coincidenza visto che mi trovo nell’ameno paese in cui trascorro le vacanze estive, ovvero Triora – famoso borgo medievale noto per essere stato teatro del più abominevole rogo della storia dell’Inquisizione – osservo fuori dalla finestra gli abitanti del posto con la stessa aria trasognata di una bambina di fronte a un presepe, ecco che mi viene recapitato un libello narrante a sua volta della vita e degli intrecci degli abitanti di un altro paesino, Malo, nel vicentino, paragonabile a Triora solo in quanto a dimensioni, ma la cui lettura ho apprezzato molto di più in quel bucolico contesto che non sbattuta a destra e a manca tra il grigiore dello smog degli autobus di Torino.
“Libera nos a Malo”, bizzarro gioco di parole tra l’ablativo di malus e il nome del posto, nonché invocazione utilizzata nei confronti delle donne di Triora – e che per altro deve essere stata esaudita visto che di donna non ne rimase più nessuna – è il titolo dell’opera di Meneghello, oriundo appunto di Malo ed eccelso padre della nostra letteratura.
Il fatto è che io non credo nel caso e credo dunque che non sia un caso che mi sia capitato tra le mani proprio nel momento in cui sono inchiodata in un paesino dalle dimensioni di un guscio di noce, che è tutto l’universo di chi ci vive, forse perché certi libri te li gusti di più se tocchi con mano di cosa parlano. O forse il talento di un autore sta proprio nel renderti partecipe di un mondo anche se nella vita reale ti trovi totalmente fuori contesto e quindi se lo avessi letto a Torino a bordo del 18 sarebbe stata la stessa cosa. Non lo so, ma quello che so è che c’è un certo rimando tra quel presepe vivente fuori dalla finestra e i personaggi memorabili che popolano il romanzo di Meneghello, come Professore, per esempio, quello fissato con il greco e che si mangiò il patrimonio pensando che a furia di pranzi e cene sarebbe finito lui prima che finissero i mezzi, ma che evidentemente, aveva sbagliato i conti almeno di qualche decennio; o il conte Marietto, conte di Santomìo, grazie al quale “tutta la scienza moderna arriva (un po’ in ritardo) a Santomìo e passa per il suo filtro positivistico, diventa succo che nutre la sua personcina”. A parte i personaggi, dicevo, di cui l’autore fa ritratti magistrali di un divertimento unico, i rituali della vita di paese, le dinamiche tra mariti e mogli, o ancora tutte le tiritere delle ragazze che cercano uno perché se le sposi e tutte le tribolazioni del moroso e la mala sorte che tocca a quelle che restano zitelle; l’amore di Ampelio per la sua morosa che non voleva né sposare né lasciare: “il loro legame di odio era così profondo che non si poteva più distinguere da un profondo amore”; il bar di Felice; l’indottrinamento teologico e le sue esilaranti libere interpretazioni, di cui particolarmente notevoli quelle legate agli atti impuri; i giochi dei bambini: la maestria eccelsa di Meneghello sta nel ricreare una dimensione d’altri tempi, nella sua capacità narrativa di veicolare aneddoti con un tono comico e affettuoso come quello che usano gli anziani da queste parti, seduti al bar di fronte a un bicchiere di vino, mentre ti raccontano cose incredibili di quando loro erano ragazzi e dei tempi di guerra, cose, situazioni che per quanto disumane e atroci forse ti davano una specie di senso di appartenenza e una specie di senso di identità.
Allora, quando ho chiuso il libro, ancora rigida come un bastone sul letto, ho guardato di nuovo fuori dalla finestra, questa volta animata da un vago senso di malinconia, e ho pensato, che strano, ora più che prigioniera di questo borgo mi sento agorafobica.