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Libia, quale soluzione alla crisi? Intervista al Gen. Carlo Jean

Creato il 20 febbraio 2015 da Bloglobal @bloglobal_opi

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di Alessandro Tinti e Giuseppe Dentice

Con la bocciatura dell’intervento militare da parte del Consiglio di Sicurezza straordinario delle Nazioni Unite, sembra essere tornata a prevalere la linea della prudenza nella gestione della crisi in Libia. Il futuro chiarimento dei margini di una qualsiasi iniziativa internazionale – sia essa di monitoraggio e di peacekeeping, di addestramento delle forze regolari e di sostegno alla riabilitazione economica, per le quali l’Italia si è inoltre candidata a giocare un ruolo di primo piano – dipenderà evidentemente da un’esatta valutazione del contesto libico e dei fattori di rischio ad esso collegati.

Del complesso scenario libico e delle sue implicazioni ne abbiamo parlato con il Gen. Carlo Jean. Tra i massimi esperti di strategia militare e geopolitica, il Gen. Jean, Generale di Corpo d’Armata, è stato tra le altre cose Consigliere Militare del Presidente della Repubblica Francesco Cossiga, Presidente del Centro Alti Studi per la Difesa (CASD) e Rappresentante personale del Presidente in esercizio dell’OSCE per l’attuazione degli accordi di pace di Dayton in Bosnia-Erzegovina, Croazia e Repubblica Federale di Jugoslavia. Autore e curatore di numerosi articoli, libri e saggi, è docente di Studi Strategici presso diversi Atenei italiani.

Sono confuse e spesso contrastanti le notizie e i dati riguardanti sia gli attori effettivamente coinvolti nell’attuale situazione di conflitto in Libia sia la reale consistenza della presenza del sedicente Stato Islamico sul territorio. Quanti e quali sono le milizie e quali sono le loro direttrici all’interno dello scenario libico? Inoltre, quant’è radicato l’IS? Quanti sono i suoi operativi e come si muovono?

In Libia la situazione è abbastanza caotica, in quanto ci sono almeno 350 milizie, ciascuna delle quali persegue propri obiettivi di ricchezza e di potere. Alcune di queste si sono raggruppate in alcuni cappelli militari. In particolare il gruppo più grosso è rappresentato certamente dall’Operazione Alba (Fajr Libya) che fa capo al Consiglio Militare di Misurata e che conta all’incirca 40mila uomini e dispone da 500 a 800 mezzi corazzati. Sul fronte opposto esiste l’Operazione Dignità, quella del Generale Khalifa Haftar, che è appoggiata dall’Egitto ed è legata al governo di Tobruk, uno dei due governi libici riconosciuto internazionalmente – ricordiamo che uno si trova a Tripoli con il vecchio Congresso Nazionale Transitorio, l’altro appunto a Tobruk con l’Assemblea dei Rappresentanti eletta nello scorso mese di giugno.

Le altre milizie sono sparse su tutto il territorio: alcune sono più islamiste, altre perseguono interessi puramente locali, altre ancora hanno interessi di carattere ideologico – come per esempio quelle che intendono eliminare coloro che avevano appoggiato Gheddafi. La situazione si dimostra dunque alquanto caotica perché nessun gruppo è nelle condizioni di prevalere sull’altro. Una situazione, questa, resa complessa da un lato dall’immensità del territorio libico, dall’altro dai tentativi falliti della diplomazia italiana e internazionale, promossi dall’ottimo Ambasciatore italiano a Tripoli, Giuseppe Buccino Grimaldi, nonché dall’Inviato Speciale delle Nazioni Unite, Bernardino Leon. Allo stato attuale bisognerà valutare anche l’azione militare promossa dall’Egitto contro le fazioni che hanno riconosciuto la loro affiliazione allo Stato Islamico – che sono molto limitate se si pensa che fino all’estate scorsa si contavano soltanto 500 combattenti e che adesso, con il ritorno di molti libici dalla Siria e dall’Iraq, ammonterebbero a circa 3000 uomini. Proprio queste forze hanno preso negli ultimi tempi il controllo di alcune città, tra cui Sirte e Derna, affiliandosi ad alcune milizie locali, in particolare a quelle di Ansar al-Sharia.

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Ritiene plausibile riattivare un processo politico nel Paese o dobbiamo ragionare solo e unicamente in base ad una soluzione militare – nemmeno troppo chiara dal punto di vista dell’operatività – dalle conseguenze non del tutto prevedibili? Quali sono gli strumenti della comunità internazionale e dell’Italia per sostenere la riconciliazione delle diverse componenti libiche e per favorire un processo di state-building?

La questione dipende essenzialmente dai libici, in particolare dai governi di Tobruk e di Tripoli. Proprio quest’ultimo, fino ad ora dimostratosi riluttante al dialogo con la controparte – il processo promosso da Ginevra –, pare abbia accettato di incontrarsi con i rappresentanti di Tobruk in Marocco sotto gli auspici del Rappresentante Speciale delle Nazioni Unite. L’alternativa militare ha invece senso se viene definita una strategia con obiettivi militari chiari: ad esempio, vogliamo disarmare le milizie? Sulla base della mia esperienza in Bosnia Erzegovina dopo il conflitto – per quanto quella non fosse una situazione frammentata come quella libica – posso dire che sarebbero necessari almeno 100-150 mila soldati per almeno 3 anni. Il punto è che non si riesce a capire cosa voglia dire “soluzione militare”, se allo stesso tempo non viene precisato l’obiettivo politico dell’impiego della forza. Nessuno fa la guerra per la guerra, ma per la pace che segue la guerra. Quindi bisogna definire che pace si vuole.

Dal punto di vista dell’Italia, la crisi libica potrebbe rappresentare un pericolo per la sicurezza degli approvvigionamenti energetici e per le opportunità di business per i numerosi operatori economici nel Paese?

L’aspetto energetico ha un ruolo indubbiamente rilevante in questa situazione di crisi. Le forniture petrolifere sono abbastanza rischio; tuttavia bisogna tener conto di come l’ENI abbia da sempre condotto una politica davvero illuminata in questo settore: lo dimostra il fatto che nonostante il caos attuale il gas continua a giungere attraverso il Greenstream e grosso modo il petrolio dalla parte occidentale continua ad affluire nei porti anziché essere imbarcato sulle petroliere e trasportato in Italia. Sicuramente però la Libia è passata da 1milione e 600mila barili al giorno ad una media produttiva di 200-300mila barili giornalieri.

Mentre in che termini la crisi libica costituisce una reale minaccia alla sicurezza nazionale italiana?

A mio avviso c’è stata una sopravalutazione della forza dell’IS e di che cosa è l’IS in Libia, mentre invece vi è una sottovalutazione della minaccia dei terroristi locali che sono più o meno legati in rete sul modello di al-Qaeda. Lo Stato Islamico è qualcosa di profondamente diverso rispetto ad al-Qaeda, così come lo Stato Islamico in Libia è completamente differente dallo Stato Islamico in Iraq e in Siria. Mentre al-Qaeda è una rete che si intreccia – e si nasconde – nella società, il Califfato ha bisogno di un territorio per esercitare un potere politico su di esso secondo, per così dire, la teologia a cui fa riferimento la lettura del Corano da parte del Califfato stesso. Il Califfo al-Baghdadi, non per niente, ha dichiarato takfir (apostata) Ayman al-Zawahiri, teoricamente il capo di ciò che rimane della direzione centrale di al-Qaeda. Se quest’ultima era proiettata soprattutto all’esterno, contro l’Occidente, il nemico lontano, il Califfato è orientato invece contro il nemico vicino, cioè contro i poteri costituiti, in modo tale da occupare il territorio e costruire un proprio Stato istituendo poteri e strutture statuali, come la riscossione delle tasse o l’erogazione di servizi, esattamente come sta già facendo tra Iraq e Siria.

A dispetto di quello che sembra esclusivamente un conflitto civile, sul territorio libico si continuano a giocare più partite contemporanee, nelle quali sono coinvolti più attori regionali, in quelle che vengono definite delle proxy war. Chi sono questi attori e come hanno influenzato – e con quali scopi – le dinamiche interne alla crisi?

La Turchia e il Qatar sostengono il governo di Tripoli e in particolare i Fratelli Musulmani e le milizie di Misurata; l’Egitto, gli Emirati Arabi Uniti e l’Arabia Saudita sostengono invece il governo di Tobruk e il Generale Haftar, che è il comandante di queste forze in parte attive nell’est della Libia, a Tobruk e in Cirenaica, e nelle montagne di Nafousa, a sud-ovest di Tripoli, dove è presente il gruppo di combattenti che fanno capo alle brigate di Zintan. Questo è un gruppo sostanzialmente di berberi, non totalmente arabizzati, che avevano occupato Tripoli e che sono stati scacciati dalla capitale dalle brigate di Misurata.

In un contesto così frammentario e mutevole, è emerso con particolare evidenza fin dalla scorsa estate il ruolo proattivo dell’Egitto. È possibile ritenere l’Egitto un attore stabilizzante nel Paese e nella regione nordafricana?

L’Egitto da solo non può procedere ad una stabilizzazione dell’area. È vero anche che se L’Egitto trovasse un accordo con Tunisia e Algeria, che sono anch’esse molto preoccupate della minaccia islamista, in particolare dagli islamisti che fanno capo all’Operazione Alba, ossia a quelli che stanno dietro il governo di Tripoli, allora questi con uno sforzo militare notevole che dovrebbe essere sostenuto dalla comunità internazionale potrebbero imporre le condizioni minime per una stabilizzazione della regione.

Fa molto rumore l’assenza di una posizione chiara dell’Occidente, in particolare quella degli Stati Uniti, che sembrano defilati al momento. A suo giudizio, questa mancanza di reattività conferma l’assenza di una politica estera mediorientale condivisa e comune o in altri termini chiama in primis i partner europei a rivedere le proprie politiche nazionali nel comparto difesa e sicurezza?

Innanzitutto la politica occidentale, la politica europea, che è politica della NATO, a parte quella dell’Unione Europea che è un’entità inesistente in particolare dal punto di vista politico-strategico, al di là di prendere atto del fatto delle preoccupazioni e dei timori sui rischi legati alla sicurezza – si vedano in Italia le dichiarazioni inizialmente un po’ avventate dei Ministri della Difesa e degli Esteri, successivamente riportate alla loro realtà dal Renzi – non riesce a vedere una soluzione possibile del conflitto libico. Andare a disarmare 300 milizie in un territorio di 1,4 mln Km2 senza una strategia chiara non è una missione semplice. L’Occidente europeo non deve sottovalutare la Libia ma neanche sopravvalutare le minacce che da lì provengono. Ritengo che oggi il vero problema non sia l’IS, né l’enfasi della sua minaccia, né il residuo di al-Qaeda, bensì il pericolo maggiore è rappresentato dal terrorismo interno, quello definito “della porta accanto”, dai cosiddetti lupi solitari già attivi a Copenaghen e a Parigi.

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