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LIBRI DEGLI ALTRI n.104: Via dalla Cina. Daniela Tani, “L’ospite cinese”

Creato il 18 novembre 2014 da Retroguardia

Daniela Tani, L’ospite cinese Via dalla Cina. Daniela Tani, L’ospite cinese, prefazione di Paolo Piazzesi, Massarosa (Lucca), Mauro Del Bucchia Editore, 2013

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di Giuseppe Panella

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Paolo Piazzesi ha fatto bene a rilevare il carattere di “romanzo di formazione” presente in un romanzo apparentemente “ingiustificabile” come quello di Daniela Tani (al suo secondo testo narrativo dopo La caduta, Roma, Ilmiolibro.it, 2011) se non alla luce delle sue implicazioni socio-culturali in rapporto alla crescita della personalità di un adolescente :

«Per più di un aspetto il lavoro di Daniela Tani evoca il Bildungsroman, centrato sulla formazione personale di un giovane : qui tuttavia niente è concesso al sentimentalismo, né all’improbabile e abusata cifra del riscatto del protagonista e dell’edificazione del lettore. Se una collocazione nel genere è da cercarsi, è forse più sul versante del giovane Törless musiliano, fra disorientata abiezione, subita anche se non condivisa, e sensazione immanente dell’irrazionalità dell’esistenza propria e altrui, in una declinazione originale, amara, disincantata»1.

E’ sul carattere di assoluta irrazionalità degli eventi e sulla loro impossibile e ingestibile manifestazione improvvisa e inarrestabile che si gioca il destino di solitudine del giovane protagonista del romanzo. D’altronde, come lui stesso dichiarerà dopo aver letto Il piccolo Principe di Antoine de Saint-Exupéry che la sua insegnante di italiano in una scuola parrocchiale per stranieri gli ha regalato, “a essere seduti da soli in cima a un pianeta si è sempre tristi”.

Chen, ribattezzato frettolosamente Alessio appena portato dal padre in Cina da Atene dove è rimasta la madre a gestire un improbabile negozio di famiglia, abita in una lussuosa villa tra Firenze e Prato presso lo zio Shin, sua moglie che si fa chiamare Sabrina e due figli che si chiamano orgogliosamente Marco e Leo. Alessio va a scuola (al liceo linguistico) ma non vi conclude granché perché il suo italiano è approssimativo con i verbi all’infinito e un lessico molto carente e, soprattutto, perché passa la maggior parte del suo tempo nel negozio di borse imitazione Gucci e denominate Occhiamandorla dei suoi parenti fittizi. Non è neppure un bravo studente di matematica (come si dice che siano di solito i giovani cinesi) e non sembra granché interessato a quello che dicono a scuola dove passa il tempo a dormicchiare, a sbirciare la sua compagna di classe cinese che si fa chiamare Giulia e a evitare provocazioni e insulti o scontri bullistici.

L’evento che mette in movimento tutto e che fa partire la storia è il ritrovamento occasionale, in un capannone affittato dallo zio dove vivono, lavorano, cucinano, mangiano, dormono e forse si accoppiano (vista la presenza di un gran numero di bambini piccoli) i suoi operai cinesi, del cadavere di uno di loro. Il morto ha un nome (Wang Li) e risulta residente a Padova ma il suo certificato di permesso di soggiorno si rivelerà, anche ad un esame superficiale, falso e utilizzato solo per permettere all’uomo di lavorare in Italia.

Le cause della morte restano imprecisate (forse un abuso di eccitanti vegetali di origine cinese per permettergli di lavorare più a lungo e più intensamente senza dormire) e la sua identità “vera” indecisa (si accenna a dei parenti padovani che gli avrebbero permesso di venire in Italia e a una bambina la cui fotografia viene recuperata insieme al suo cellulare (che si apre con l’immagine riprodotta dell’uomo sul display subito dopo la sua accensione).

Alessio riceve ordini precisi dalla zio : rimuovere il corpo in gran fretta, distruggere tutte le tracce della sua permanenza nel capannone, nascondere il cadavere dopo averlo avvolto in un rotolone di cuoio di quelli usati per la confezione delle borse falso-Gucci e lasciarlo in uno sgabuzzino per gli attrezzi. Successivamente, lo zio stesso provvederà nella notte aiutato dal suo stesso “nipote” a sbarazzarsene, lasciandolo all’altezza di un cassonetto dei rifiuti che si trova piuttosto lontano dalla fabbrica di pelletterie dove, infatti, sarà ritrovato l’indomani dalla polizia.

Alessio nasconde allo zio Shin di aver ritrovato, oltre al telefonino cellulare e il permesso di soggiorno, una cassetta di legno che contiene degli oggetti del cinese morto e, nascosti in un doppio fondo, seicento euro in contanti di cui si è impadronito.

Questo reperto, peraltro pericoloso da tenere in casa proprio e che costituirebbe una prova incriminante per una possibile inchiesta poliziesca, sarà consegnato alla sua insegnante di italiano presso la parrocchia del paese, l’unica persona di cui Alessio / Chen effettivamente si fidi.

Ma, una volta saputo delle indagini in corso e della possibilità, sia pure remota, che il cadavere possa essere identificato come quello di un operaio di Shin, la donna pretende che la cassetta venga bruciata e che il denaro arbitrariamente intascato da Alessio venga consegnato al parroco al quale potrebbero fare riferimento eventuali parenti del defunto (che, peraltro, è di religione cattolica).

Successivamente, durante un matrimonio à la mode di cui ha trovato la fornitura enologica assai scadente per qualità e per gusto, lo zio ritorna brevemente a casa a rifornirsi di vino italiano (di cui apprezza particolarmente il raro Sassicaia di Bolgheri) e forse per effetto dell’eccitazione dovuta alle eccessive libagioni muore di infarto. Per la sua imbranatezza giovanile o per una scelta precisa (anche questo resterà indeciso nel prosieguo del romanzo), Alessio non chiama l’ambulanza e lo zio muore in cantina. Dopo un terribile funerale a carattere misto (né cinese-tradizionale né cristiano-occidentale – gli addetti alla pompe funebri si erano premurati, però, di fornire la bara di una croce metallica), Alessio torna ad Atene insieme al padre perché, nelle parole del suo genitore, se Shin era “un amico”, il figlio Marco che ha ereditato tutto non lo è e di lui non si fida per niente negli affari.

Il ragazzo torna dalla madre, nella sua famiglia originaria ma manda in seguito alla professoressa, quale personale ricordo del suo passaggio in terra di Toscana, il racconto della storia che ha vissuto e che la donna trasformerà, con l’aggiunta di segni di interpunzione, aggettivi e verbi corretti e più puntuali, nel romanzo che l’editore pubblicherà come vicenda autonoma.

Anche in questo caso si è in presenza (più o meno) del gustoso artificio del “manoscritto ritrovato” e Alessio vi figura come un modesto Ishmael cinese che “è sopravvissuto per raccontare” la sua vicenda”. Ma il romanzo non è Moby Dick di Melville né uno dei tanti polizieschi alla moda ambientato in Toscana quanto una storia di iniziazione alla vita (e alla morte) in cui toni melanconicamente modulati, vicende tragiche e devastate, momenti fortemente grotteschi (il matrimonio cinese “alla moda” che nei modi sarcastici e ferocemente modulati ricorda quello che apre Il Padrino di Mario Puzo, con i regali in danaro neppure nascosti in buste anonime da lettera fatti agli sposi e a cui vengono corrisposti come ricevute un po’ misteriosamente delle stecche di sigarette in ragione della somma sborsata) e un’esplorazione attenta e curiosa di una mentalità totalmente diversa da quella italiana ma poi costretta ad assimilarsi ad essa nei suoi aspetti certamente peggiori e di cattivo, anzi pessimo gusto. Basti pensare allo sfoggio di automobili di grande marca e di potente cilindrata (come i peggiori cafoni arricchiti), all’uso forsennato di oggetti di valore e all’esibizione di vini di grande valore anche in occasioni poco adatte e con persone incapaci di apprezzarli. Soprattutto quello che è messo assai bene in evidenza è l’atteggiamento dei cinesi ormai diventati italiani (e che si considerano come tali) nei confronti del dio denaro diventato l’unica loro ragione di vita, un rapporto ossessivo e compulsivo verso la ricchezza, guadagnata spesso non con il lavoro ma con metodi criminali e brutali, allo stesso modo in cui questo avviene nell’ambito del Sistema della malavita organizzata (e qui la lezione di Gomorra di Roberto Saviano è stata certamente ben compresa e assimilata, nel suo intreccio di ricostruzione della mentalità criminale e il suo precisso distacco ricostruttivo, per certi aspetti, quasi entomologico).

A differenza di un altro romanzo interessante sull’argomento e comunque quasi coevo al testo narrativo della Tani (penso cioè a Piero Ianniello, tanto per citarne uno dei più riusciti e dei più recenti, ben calato nella realtà pratese che meglio conosco2), L’ospite cinese dimostra una coerenza e una compattezza narrativa non indifferenti ed è una prova di grande interesse di scrittura calata efficacemente nel cuore stesso delle vicende attonite e crudeli del nostro presente.


NOTE

1 P. PIAZZESI, Prefazione a D. TANI, L’ospite cinese, Massarosa (Lucca), Mauro Del Bucchia Editore, 2013, pp. 9-10.

2 Cfr. P. IANNIELLO, Via della Cina, Firenze, Mauro Pagliai Editore, 2012, un libro struggente e doloroso che suggerisce, tuttavia, altre impressioni di lettura e assomiglia più a una via crucis terribile e straziante (quella di Lucia) che a un “romanzo di formazione” come quello della Tani.

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[Leggi tutti gli articoli di Giuseppe Panella pubblicati su Retroguardia 2.0]

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I libri degli altri è il titolo di una raccolta di lettere scritte da Italo Calvino tra il 1947 e il 1980 e relative all’editing e alla pubblicazione di quei libri in catalogo presso la casa editrice Einaudi in quegli anni che furono curati da lui stesso. Si tratta di uno scambio epistolare e di un dialogo culturale che lo scrittore intraprese con un numero notevolmente alto di intellettuali e scrittori non solo italiani e che va al di là delle pure vicende editoriali dei loro libri. Per questo motivo, intitolare una nuova rubrica in questo modo non vuole essere un atto di presunzione quanto di umiltà – rappresenta la volontà di individuare e di mettere in evidenza gli aspetti di novità presenti nella narrativa italiana di questi ultimi anni in modo da cercare di comprenderne e di coglierne aspetti e figure trascurate e non sufficientemente considerate dalla critica ufficiale e da quella giornalistica corrente. Si tratta di un compito ambizioso che, però, vale forse la pena di intraprendere proprio in vista della necessità di valutare il futuro di un genere che, se non va “incoraggiato” troppo (per dirla con Alfonso Berardinelli), va sicuramente considerato elemento fondamentale per la fondazione di una nuova cultura letteraria… (G.P)

 

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