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Licenziamento statali sì, licenziamento statali no. Elsa Fornero contro Patroni Griffi. Chi ha ragione?

Creato il 05 giugno 2012 da Iljester

Licenziamento statali sì, licenziamento statali no. Elsa Fornero contro Patroni Griffi. Chi ha ragione?

L’idea generalizzata che si ha del lavoro pubblico in Italia è un’idea malata, legata a un retaggio del passato nel quale la pubblica amministrazione era un’autorità che agiva per fini misteriosi e nell’opacità del segreto d’ufficio. Chi diventava parte di questa “setta”, pertanto, veniva iniziato ai riti del pubblico interesse e diventava “intoccabile”: diretta espressione della volontà autoritativa dello Stato o dell’amministrazione.

Non esistevano errori contro i cittadini. La pubblica amministrazione aveva quasi sempre ragione e i suoi atti erano legge, poiché promanavano direttamente dalla legge. L’accesso ai documenti dell’amministrazione? Roba da fantascienza. Davanti a simili richieste ci si trovava a sbattere contro un muro di cemento.

Insomma, il pubblico impiegato, in questo sistema, era la volontà amministrativa, incarnava l’interesse amministrativo e come tale era intoccabile. Se errore commetteva lo commetteva contro i suoi superiori gerarchici, mai contro gli interessi del cittadino.

Da qui l’esclusione del rapporto di pubblico impiego dalle norme e leggi valide e applicabili al rapporto di lavoro privato (compresa la contrattazione collettiva), che per suo conto, pur con tutte le garanzie di legge emanate tra la fine degli anni ’60 e l’inizio degli anni ’70 (in particolare la disciplina sui licenziamenti e lo Statuto dei Lavoratori), ha sempre mantenuto un certo grado di mobilità in uscita. Magari difficile da attuare, ma pur sempre esistente.

Poi le cose sono iniziate a cambiare negli anni ’80, con un progressivo avvicinamento del rapporto di lavoro pubblico al rapporto di lavoro privato, fino alla riforma di inizio anni ’90 che ha esteso al lavoratore pubblico la disciplina del lavoro privato. Nel contempo – con la legge 241/90 – è stata pure ribaltata la filosofia nel rapporto tra pubblica amministrazione e cittadino, in favore di una maggiore trasparenza dell’attività amministrativa, prevedendo tra le altre cose, il diritto d’accesso del privato agli atti della p.a. e il suo diritto di partecipazione al procedimento amministrativo.

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A conti fatti, nel 2012 non esistono più profonde differenze tra il pubblico impiegato e il lavoratore privato, se non in alcun ambiti come i licenziamenti e l’applicazione dell’art. 18. Sotto questo profilo, esistono ancora delle resistenze, legate appunto a quel retaggio di cui ho parlato più su e che vede il lavoratore pubblico non tanto un soggetto chiamato a lavorare per una pubblica amministrazione in quanto ha superato una prova selettiva di preparazione professionale, quanto un soggetto che ha “vinto” quel lavoro il quale diventa di sua proprietà: intoccabile, inalienabile, invendibile, inscindibile e dunque eterno e indissolubile.

Neanche il matrimonio lo è oggigiorno. Eppure il posto di lavoro pubblico – siccome si vince per concorso – lo è diventato. E questa logica assurda esiste tutt’ora. Ed è una delle logiche che contribuiscono a creare molte delle inefficienze della pubblica amministrazione. Chi ha la certezza matematica che il suo stipendio arriverà sempre, lavori o non lavori, non sarà mai incentivato a produrre quanto e più di chi questa certezza matematica non ha. Tanto che se il rapporto di lavoro è un rapporto di prestazione e controprestazione che richiede un obbligo da entrambi le parti, nel pubblico impiego sembra quasi che la controprestazione del lavoratore più che un atto dovuto sia un atto eventuale.

Tutto questo per dire che forse, in questo caso, la logica di Elsa Fornero non è poi così sbagliata: perché discriminare tra il pubblico impiegato e il lavoratore privato sul piano dei licenziamenti? Se viene imposta una certa disciplina al privato, perché questa non deve essere estesa anche al lavoratore pubblico? Non credo che le cose peggiorerebbero. Anzi, migliorerebbero, perché il lavoratore pubblico avrebbe l’incentivo tipico dei rapporti sinallagmatici: il mantenimento del rapporto di lavoro, considerato non più solo come fonte di diritto, ma anche di dovere.

di Martino © 2012 Il Jester


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