Licenziato in tronco – di Iannozzi Giuseppe aka King Lear

Creato il 02 febbraio 2012 da Iannozzigiuseppe @iannozzi

Licenziato in tronco

di Iannozzi Giuseppe aka King Lear

da Racconti di Giganti e Nani

Teneva la bocca impastata. Avesse tentato di scartare una parola di bocca, temeva gli sarebbe scoppiato il cuore in petto tanto forte era il dolore per la perdita. L’avevano chiamato in ufficio a fine giornata, dicendogli solamente che il Direttore intendeva parlargli faccia a faccia. Davanti ai colleghi Giuliano aveva dapprima scosso la testa refrattario, infine fu però costretto ad assentire. La segretaria che gli aveva annunciato la condanna sorrideva, cosa ben strana perché Ilaria era donna tutto d’un pezzo mai disposta a concedere uno spicchio di solarità. A fine giornata Giuliano si era dimostrato sottomesso, lasciando scemare la rabbia, consapevole che sarebbe entrato nell’ufficio del Direttore per l’ultima volta.
“Si accomodi”, gli disse il Direttore senza alcuna enfasi.
Giuliano si accorse subito che l’indefinita gentilezza del suo superiore aveva il solo scopo di metterlo in difficoltà: se c’era una cosa in cui eccelleva quell’uomo era di far sì che i suoi sottoposti si mettessero in ridicolo da sé.
“Preferisco di no.”
“Come vuole.” Una pausa. “Lei sa perché è qui?”
“Dovrebbe dirmelo lei. Io non immagino.”
“Nel nostro lavoro saper immaginare è la prima qualità richiesta.”
“Confermo.”
Il Direttore si alzò dalla poltrona. Anche da dietro la scrivania la sua altezza era indiscutibile: quasi un metro e novanta, mascella volitiva, capelli brizzolati folti tagliati corti, un fisico statuario in giacca e cravatta. “Lei conferma”, sottolineò, e si concesse una smorfia appena abbozzata a fior di labbra.
“Sì”. Giuliano lo sputò quel “sì”, ma in fondo allo stomaco un magma di acida impotenza lo stava consumando poco a poco.
“Non giriamoci attorno. Lei è fuori. L’azienda non trova più soddisfacenti i suoi servizi. Nove anni qui da noi e qualche effimero successo.”
“Creare pubblicità riserva delle sorprese…”.
“Lei ha portato nella nostra azienda meno di quanto ci aspettavamo. Ci era stato indicato come una persona capace e capace lo è, ma in una maniera tutta sua, troppo personale perché possa interessare a questa azienda. Lei capisce che cosa sottintendo.”
“No.”
“Come vuole… Lei ci ha venduto i suoi amici spacciandoli per degli artisti. Non va bene.”
“Sono degli artisti.”
”Per lei. In nove anni i suoi amici hanno purtroppo giustificato il cattivo credito che oggi abbiamo sulla piazza. Bisogna cambiare linea.”
“Capisco.”
“No, lei non capisce. Ha fatto finta di capire per nove lunghi anni. Le campagne pubblicitarie studiate dai suoi amici pubblicitari ci hanno fatto perdere credibilità. Si rende conto del danno, sì o no?”
“La pubblicità è un lavoro artistico di investimento…”.
Il Direttore pestò il pugno sul legno della scrivania: “Lei ritiene che i lavori fatti dai suoi pubblicitari in questi nove anni siano buoni?”
“Io penso di sì.”
“Perché?”
“Sono lavori sudati. Ho lavorato insieme alla mia squadra, spesse volte giorno e notte.”
“Questo lo so. Ma la mia domanda era un’altra. Gliela formulo di nuovo: sono buoni o no i lavori che lei e la sua squadra avete dato alla Baroni Spa?”
“Sì, lo sono.”
“In linea di massima è quello che penso anch’io. Buoni.” Sospirò in maniera teatrale prima dell’affondo finale: “Però mancano di talento.”
“Non è così semplice…”
“Mi ascolti. Lei ha dato alla Baroni Spa dei lavori buoni, punto e basta. Mi spiego: saper disegnare una scatola di fagioli non è sufficiente. I suoi uomini hanno disegnato fish and chips, ma con la presunzione di chi manca di talento; e il risultato è stato quello che sappiamo, delle campagne pubblicitarie senza anima, incapaci di convincere.”
“Sono dei progetti pubblicitari e non un Caravaggio… Non si può pretendere che chi le guarda si trovi faccia a faccia con la sindrome di Stendhal!”
“Signor Giuliano, è tutto. Il suo contratto di collaborazione con noi scade a fine mese. E’ tutto.”

Durante la pausa pranzo Giuliano non aprì becco.
Risatine e paroline velenose arrivavano al suo orecchio, ma lui le ignorava, o perlomeno ci provava perché di dentro solo lui lo sapeva come si sentiva. Di merda.
Ilaria gli passò sotto gli occhi sculettando. Era la prima volta che muoveva il culo con femminilità. In ufficio tutti dicevano che era più rigida d’una scopa.
Si alzò di scatto, rovesciando così il bicchiere di plastica pieno di tè caldo, che proditoriamente gli si scivolò tutto sulla patta. Giuliano levò un grido disumano, prima sbiancando poi accendendosi di pudico rossore in volto. L’urlo non mancò di attirare l’attenzione dei colleghi, che accorsero e risero tenendosi la pancia.
Li odiava.
Nove anni insieme non erano pochi. Ma adesso li odiavi tutti i colleghi, uno a uno. Aveva sputato sangue per loro e adesso quelli se la ridevano divertiti, sboccati, felici di vederlo a terra senza possibilità alcuna di rialzarsi.
Nonostante il dolore bruciante alle parti basse tirò il petto infuori e fingendo una tranquillità che in realtà non sentiva si aprì un varco fra le gambe dei curiosi.

La giornata era pressoché finita. Si stirò braccia e gambe, in maniera ridicola, pareva difatti un gattaccio obeso e mezzo spelacchiato, una sorta di Doraemon con la gattopone esaurita. Dalla scrivania raccolse una penna biro che si cacciò nel taschino della camicia, diede poi con gli occhi una veloce spazzolata all’ufficio, ai monitor accesi dei computer, alle scrivanie vuote dei colleghi, alle veneziane pesanti di polvere, e si convinse ch’era proprio finita. Nove anni non erano pochi, continuava a ripetersi. Finalmente si caricò lo zainetto con le sue poche cose in spalla e attraversato il corridoio e la macchinetta del caffè fu davanti al portone d’uscita.
Il Direttore era ancora in ufficio con la luce accesa. Giuliano pensava a quanto fosse strano. Gli bastò un attimo per capire: attendeva qualcuno.
Si portò fuori. Il cielo era già gravido d’un bel buio senza stelle. Solo un lampione sputava la sua luce bassa sul piccolo piazzale che la Baroni Spa aveva adibito a parcheggio per il personale dipendente. Giuliano sospirò. Una infelicità cattiva lo rodeva, si ripeteva che non meritava d’esser cacciato a calci in culo dall’azienda dopo nove anni nonostante gli errori commessi.
Con pigrizia attraversò il piazzale per avviarsi verso la stazione, dove il treno l’avrebbe riportato a casa per poche ore di sonno, come sempre. Non aveva mai preso la patente, si muoveva solo in treno: gli amici lo prendevano un po’ per i fondelli accusandolo di essere lo sponsor delle Ferrovie dello Stato, ma a lui il treno piaceva davvero. Per un buon terzo la sua vita l’aveva passata stipato in un vagone ferroviario, con un libro a tenergli compagnia lungo il viaggio o con qualche personaggio ambiguo a vomitargli nelle orecchie la sua storia, di come si era fatto le ossa e di quella volta che a momenti lo facevano fuori per un strappargli il crocifisso d’oro legato al collo che era l’ultimo ricordo che la madre morente gli aveva lasciato prima di tirare le cuoia…
Ci mancò davvero poco perché perdesse l’equilibrio. Chiunque fosse gli era venuto addosso con una fretta del diavolo. Giuliano era pronto ad alzare la voce contro l’assalitore, ma voltatosi si accorse che era un nano come lui, sulla cinquantina, mezzo calvo, naso camuso, labbra sottili, rasato alla boia d’un giuda e vestito altrettanto male. Quell’omarino gli somigliava in maniera tragicomica. Era più alto di lui d’un paio di centimetri, forse per via delle scarpe, ma per il resto pareva il suo fratello gemello se solo ne avesse avuto uno. Fece per bofonchiare qualcosa, ma le parole gli rimasero incastrate in gola.

Aspettando il treno sotto la pergola della piccola stazione deserta di B*****, Giuliano non riusciva a levarsi di testa il pensiero che quello che l’aveva investito era proprio uguale a lui, spiccicato, e che presto avrebbe preso il suo posto. Il Direttore era rimasto in ufficio fino a tardi per avere un tête-à-tête con quel personaggio stravagante, che a fine mese avrebbe occupato il suo dannato posto; di questo Giuliano ne era più che sicuro. Con infinita tristezza si prese la testa fra le mani tappandosi gli orecchi coi palmi, sperando in segreto di morire in quella posizione.
In stazione non c’era anima viva.
Di tanto in tanto un soffio di vento sibilava nel vuoto tra binario e binario, tra scambio e scambio.
Una luce. Verde. Rossa. Arancione.
Una eco lontana di vagoni in movimento per chissà dove.
Era lui in compagnia della vuotezza, e il suo treno portava già un ritardo notevole. Inutile chiedere al capostazione: se c’era dormiva di sicuro, e in ogni caso non avrebbe saputo dirgli niente, ormai lo conosceva bene, stava lì solo per scaldar la sedia.
Un’ombra partorita dal buio lo mise subito in allarme.
Lo stava minacciando: “Ti prendo, ti picchio, ti spacco, ti rompo!”
Giuliano non sapeva che fare, non aveva mai fatto a botte con nessuno, neanche da ragazzino nei cortili della scuola. Decise che era il caso che gli parlasse, ma quando aprì bocca gli riuscì solo di vomitare “nove anni non sono pochi, non sono pochi…”

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