Ai fatti, però, la pellicola di Anton Corbijn, in quel suo piccolo ritaglio che racconta, è sufficiente per accaparrarsi l'etichetta di biopic su Dean, e non solo attraverso una interpretazione di Dane Dehaan che mostra un lavoro meticolosissimo sul personaggio - intenzionato ad andare oltre quel singolo avvenimento - ma perché in quel breve spazio dove Stock si è trovato a pedinare e ad aggrapparsi morbosamente al giovane ribelle, attore, è possibile rintracciare a pieno l'integrale personalità, la malinconia e l'attitudine nello stare al mondo che contraddistingueva lui dalle altre stelle dello spettacolo. Non amava il successo, Dean, e in effetti neppure lo cercava: lui era amante della recitazione e basta, voleva perdersi nel personaggio, fuggire da sé stesso, correre, sempre correre. Così era pure fuori dal set: indomabile per le major, sempre chiuso in sé stesso, in disparte, a pensare a come vivere una vita che galoppa più veloce di noi, da prendere al volo, senza pensarci troppo, una vita, tuttavia, in cui è fondamentale anche trovare un briciolo di tempo per tornare a casa, qualche volta, in quello spazio accogliente e sereno dove la felicità dell'esistenza ha conosciuto l'apice. Lui era un poeta, un romantico, un uomo che aveva conosciuto la sofferenza e sapeva che qualche flash in più non lo avrebbe guarito, stesso discorso per le urla o l'affetto da red carpet.
Per questo in "Life" il vero James Dean, la sua anima, quella che il fotografo Stock non riusciva a cogliere a New York o a Los Angeles, si propongono esclusivamente nel viaggio estemporaneo in Indiana, tra le mura della sua casa e nei rapporti con la famiglia che lo ha visto nascere e crescere. Sebbene costantemente abbottonato e sfuggente, in quella breve pausa rubata ai riflettori, alle pressioni e alle telefonate, infatti l'attore finalmente trova il modo di rilassarsi e di mostrare sé stesso, accendendo la luce sul suo carattere misterioso e travisato da molti.
Allora "Life" finge di essere una cosa per poi rivelarsi come un'altra, cammina davanti allo spettatore trascinandosi, con quella inquietudine, quella insicurezza sulla meta che è propria di colui che sta raccontando, ma allo stesso tempo è consapevolissimo di dove vuole (non) andare e di quali saranno le conseguenze.
Così, filtrate attraverso l'occhio di Corbijn, che a sua volta guarda attraverso l'occhio e l'obiettivo di Stock, il ritratto di Dean viene più o meno centrato e messo a fuoco. Certo, nessuno potrà sostenerlo come al 100% veritiero, ma comunque l'idea di un cavallo pazzo, al quale il recinto stava troppo stretto e a cui piaceva correre libero per i campi, secondo noi oltre che a calzare, fa pure un certo effetto. Quel tipo di effetto che incanta chi è fermo ad ammirare.
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